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mercoledì 31 ottobre 2012

Il cuore è il tallone di Achille

Secondo classificato allo skannatoio di Ottobre nonostante i giudizi altalenanti.


Il cuore è il tallone di Achille

Il sole cominciava a calare sui vitigni che striavano il fianco della collina. Le ombre degli aranci, delle palme da datteri e degli altri alberi da frutto si allungavano sul terriccio scuro dei campi sul versante ovest, a ridosso della modesta casa rurale che dominava il paesaggio.
Athanasios raccolse una melagrana caduta a terra e si riempì la bocca di semi. La polpa era dolce: il tempo della raccolta era ormai giunto anche quell’anno.
Alzò lo sguardo verso l’edificio di pietra bianca dove la piccola Galene, in un vestito ocra, alternava pochi passi di corsa scoordinata alla risata che sapeva sempre sciogliergli il cuore. All’altro capo di quei gridolini divertiti, Anthia raccoglieva fiori di campo e, di quando in quando, fingeva di inseguire la piccola che riprendeva a scappare strillando felice.
Athanasios, a quella distanza, non capiva nemmeno una parola di quanto si stessero dicendo la moglie e la figlia, ma sentiva il cuore colmo di una gioia quieta e pacificatrice mentre le guardava inseguirsi nell’erba: dopo tanti anni di sangue, furia e dolore, forse aveva trovato la serenità che, da sempre, ogni uomo va cercando.
La forza di quel pensiero gli rimbombò in testa, facendovi risuonare un’eco di scudi frantumati e carni lacerate; anche a occhi aperti poteva vedere quei volti, sentire le loro vite spegnersi tra le sue mani. Si portò d’istinto i palmi al volto, ma la visione era già svanita, il dolore evaporato. Scese con lo sguardo sulle dita e le trovò sporche, ma solo di terra. Un sorriso gli si aprì sul viso.
Tornò a fissare la sua famiglia e, in un attimo, tutto fu di nuovo perfetto: il sole morente abbracciava e custodiva il suo tesoro più grande.
Sono lontani i tempi in cui queste mani erano striate dal sangue incrostato di uomini ed eroi.

«Che buono! Ma chi l’ha cucinata questa delizia?» sorrise Athanasios, infilandosi in bocca l’ultima cucchiaiata di minestra.
Galene, aggrappata con i gomiti al tavolo troppo alto per i suoi tre anni, sorrise gioiosa e provò a indicare la madre seduta di fronte a lei: appena sollevò il braccio dal legno, però, perse l’equilibrio e capitombolò a terra.
«Quante volte ti ho detto di stare seduta composta?» Anthia sbuffò mentre afferrava sotto le ascelle la piccola per rimetterla a sedere.
Gli occhi della bambina riemersero vispi dal bordo del tavolo e, dopo un attimo di silenzio, tutti proruppero in una risata.
«Attenta, piccola mia, nemmeno il tuo grande padre può permettersi di disobbedire alla mamma, altrimenti…» sorrise ancora, mentre la moglie si portava ironica una ciocca dei lunghi capelli biondi davanti al viso imbronciato e Galena rideva sguaiata.
«E va bene, ora basta. Tu, signorina, alzati, è ora di andare a letto.» disse la donna ancora in piedi.
«Ma io voglio stare con papà.»
«Ricordati, principessa, mai disobbedire alla mamma.» l’apostrofò lui.
«Va bene.» rispose mogia la piccola: era così raro che potesse sedersi a tavola con i grandi che, quando succedeva, era sempre difficile convincerla ad alzarsi.
Anthia la prese in braccio e sparì rapida su per le scale mentre, da sopra la sua spalla, Galena regalava a suo padre un ultimo sorriso.
Quando la donna fu di ritorno, Athanasios era ancora seduto al proprio posto e lei gli si accovacciò dietro, abbracciandolo stretto e poggiandogli la guancia tra le spalle.
«Sono due giorni che mi trascuri, marito mio, non ti piaccio forse più?»
L’uomo si alzò di scatto dalla sedia e, libero dalla presa della moglie, le strinse i fianchi con forza, fissandola irritato.
Lo sguardo della donna era languido: lo aveva raggirato un’altra volta. Athanasios si rese conto che aveva fatto esattamente il suo gioco, ma non si scompose, anzi, la strinse con ancora più forza, finché le scappò un gemito, quindi la sollevò di forza e la mise a sedere sul pesante tavolo in legno ancora apparecchiato.
«Allora mi desideri ancora.» gli ansimò a labbra socchiuse accanto all’orecchio.
«E tu? Tu mi desideri ancora?»
Anthia appoggiò un avambraccio  tra piatti e posate e, con un gesto rapido, gettò tutto a terra.
«Amore mio, fammi sentire che desideri me e solo me.»
Gli cinse il viso con le mani e se lo tirò al petto, guidando le sue labbra attraverso lo spacco della veste, verso i suoi seni.
L’uomo la afferrò sotto le cosce ambrate e, con il proprio peso, la costrinse sul tavolo, mentre le mani scendevano verso le ginocchia che si allargarono docili, incapaci di opporre alcuna resistenza.
Queste mani vogliono solo stringere il tuo corpo per amare, non più armi per uccidere.

La lancia penetra senza esitazione il primo nemico, il nemico dietro di lui, e quello dopo ancora. La rabbia mi scorre bollente nelle vene, mi brucia le carni alimentando se stessa. La sete di sangue è implacabile, la gola arsa non sa trovare sollievo nel rosso troiano che scorre a fiumi sul campo di battaglia. Sul volto di ogni uomo in ginocchio vedo il Suo e i nemici vengono falciati come spighe di grano: ogni mio fendente miete vite a manciate, ma la Vendetta ne esige ancora, sempre di più, insaziabile come le cosce delle finte vergini ateniesi.
Un altro affondo, ancora un fendente, un colpo con lo scudo alla gola di un ragazzo che avrà circa la Sua età. Le mie mani tengono le impugnature con naturalezza, come fosse il loro unico scopo: annegano sogni e speranze in quel bagno di sangue alimentato dalla mia cieca ferocia. Vorrei fermarmi, ma so che non lo farò, almeno fino a quando non l’avrò trovato.
Eccolo, Ettore, le cui mani sono ancora macchiate di Lui, riesco ancora a vederlo mentre gli strappa la vita dal petto invocando il mio nome.
Mi sfida con lo sguardo e comincia a camminare verso di me. Il campo di battaglia si apre per farci spazio, nella vana speranza di non incappare nella mia furia. Sento nel petto un fuoco malsano consumare la mia umanità, il profumo della morte mi inebria, la memoria di Patroclo consegna a Caronte abbastanza lavoro per dieci vite.
Nessun troiano vivrà per raccontare ai figli il significato della furia di Achille.
Ettore tenta un affondo, ma è un semplice umano. È la sua superbia a condannarlo a morte, quella luce nei suoi occhi che sorride beffarda è come zolfo sulle fiamme della mia ira. Gli afferro il polso e comincio a torcerlo, cade in ginocchio in una smorfia di dolore, mentre io, implacabile, con l’altra mano gli afferro la gola. Le dita penetrano la carne, sento il suo pomo d’Adamo dibattersi come un pesce morente, il sangue rende tutto scivoloso ma la mia presa è ferrea: sappiamo entrambi come finirà.
Nel momento in cui il suo cuore si ferma, il mio riprende a battere. Il mondo torna infine ad assumere dei contorni definiti, dei colori distinti. Lo sguardo si posa sulla sinfonia di morte che mi circonda: espressioni contratte su visi senza vita, tutti quegli occhi che mi fissano attraverso il vuoto, le bocche spalancate in migliaia di assordanti grida silenti.
«Portatemi una fune! E il mio carro!» intimo ai mirmidoni mentre, dalle mani, mi gocciola ancora il sangue caldo dell’assassino di mio fratello.
Athanasios scattò a sedere sul talamo, la veste madida di sudore e i polmoni oppressi da un peso invisibile.
«Amore mio, un altro incubo?»
Doveva aver urlato svegliandosi: Anthia era seduta accanto a lui che lo guardava con gli occhi sbarrati.
«Già.»
La donna lo tirò a sé poggiandogli la testa sul proprio grembo.
«Vieni qui, raccontami cosa ti turba.»
L’uomo la strinse disperato tra le lacrime, provando a rimanere aggrappato a quel fragile sogno che era la sua nuova vita. In fondo al cuore l’insana paura che un giorno non lontano, riaprendo gli occhi, l’avrebbe visto svanire, evanescente immagine di una felicità effimera insidiata da oscuri presagi.
Ho paura. Come può un uomo combattere il proprio destino, la propria natura, quando il sangue dalle sue mani non può essere lavato?

Il sole non era ancora basso sull’orizzonte quando Athanasios decise che, per quella giornata, aveva lavorato a sufficienza: dopo l’incubo della notte precedente, gli era rimasta cucita addosso una fastidiosa mestizia, solo riabbracciare Anthia e Galene gli avrebbe risollevato l’umore.
Si avviò a passo tranquillo attraverso le vigne quando, d’improvviso, la brezza gli portò alle narici una tenue puzza di bruciato.
Si fermò ad annusare meglio l’aria e un brivido gli corse lungo la schiena: conosceva bene quell’odore acre, denso, pungente, lo aveva sentito infinite volte mentre metteva a ferro e fuoco città e villaggi.
La paura s’impossessò del suo cuore e gli mise le ali ai piedi. Più si avvicinava a casa, più il lezzo si faceva intenso. Arrivato in cima alla collina, scorse anche la densa colonna di fumo nero che si levava nel cielo, strangolando ogni sua residua speranza che non fosse accaduto nulla di grave.
Si precipitò verso casa correndo in linea retta, ignorando sentieri, ostacoli, salti.
A pochi metri dall’edificio, però, si fermò di colpo: un enorme basilisco di metallo, lungo quasi quanto l’abitazione, sbucò da dietro un angolo e sputò un getto di fuoco bianco e intenso, riducendo in cenere tutte le piante del piccolo orto domestico.
Prima che il mostro riuscisse a scorgerlo, l’uomo fece uno scatto e saltò in una delle finestre della casa passando attraverso i tendaggi in fiamme della sala da pranzo. Atterrò sul grosso tavolo in legno che cedette di schianto facendolo rovinare a terra, strinato e dolorante.
Stava per rialzarsi quando un gelido e appuntito tocco metallico gli sfiorò la nuca.
«Lentamente, ragazzo, molto lentamente.» gli disse, da dietro le spalle, una voce profonda e appena sussurrata.
Athanasios si mise in piedi e, con le mani sollevate, si voltò piano.
Sentì un tuffo al cuore quando, nell’individuo di fronte a sé, riconobbe Odisseo. La stessa espressione sorpresa si dipinse anche sul volto dell’uomo armato che, riconosciuto l’’amico, abbassò la spada:
«Achille, per Giove, pensavo di essere arrivato troppo tardi.»
«Non usare quel nome! Da queste parti nessuno sa chi sono. Piuttosto, come mai sei qui?»
«Mi manda Teti, sono venuto ad avvertirti del pericolo imminente, ma vedo che il pericolo ti ha trovato prima di me.»
Achille si scostò dal viso i capelli biondi già striati dalla fuliggine e si accovacciò sul pavimento:
«Che storia è questa? Dov’è la mia famiglia?»
L’amico gli si accucciò accanto e gli mise una mano sulla spalla:
«Apollo ti ha scoperto e, non c’è bisogno di dirlo, non l’ha presa bene. Quella bestia là fuori se l’è fatta costruire da Efesto in persona, e temo che non si fermerà fino a quando non ti avrà trovato e ucciso. Il Dio del Sole non è famoso per la sua misericordia. Gli hai fatto fare la figura dell’idiota, non puoi biasimarlo se ora brama vendetta.»
«Vorrai dire che gli “abbiamo” fatto fare la figura dell’idiota.» lo corresse l’amico, subito prima che un’esplosione facesse crollare accanto a loro una porzione del tetto.
Persino a distanza di anni le mie mani fremono non appena sentono il profumo della battaglia.

«Odisseo, Patroclo è morto.»
Achille si gettò sui cuscini della tenda dell’amico, il volto scuro e inespressivo.
«Ho saputo, Achille. Mi unisco a te nel cordoglio per questa perdita. Sei più di un fratello per me e lui era più di un fratello per te. Vieni, piangiamo insieme la sua scomparsa.»
«Non ci sono più lacrime da versare in questi occhi, non sento più nulla. Niente dolore, niente rabbia, niente ardore, nessun desiderio di vendetta. Mi sento vuoto. Che senso ha tutto questo, Odisseo? Che senso ha? Una guerra per capriccio, perché un re inetto non ha saputo tenere a freno le voglie della sua sposa puttana. Ma io non ho visto nessun re greco immerso fino ai gomiti nel sangue e nelle viscere dei suoi compagni, nessun re a dimostrare il proprio valore sul campo.»
«Comprendo le tue motivazioni, amico mio, ma dovresti essere più accorto nel pronunciare tali parole, se ti sentisse qualcuno?»
Achille si alzò in piedi, una scintilla d’odio negli occhi vacui.
«Agamennone sa cosa penso di lui e di suo fratello, se volesse espormi le sue rimostranze, saprebbe bene dove trovarmi: la mia tenda è nello stesso posto da dieci anni.»
Il tono dell’eroe dai capelli biondi era secco e deciso, sapevano entrambi che nessuno avrebbe mai osato sfidare apertamente Achille, nemmeno i re di tutta la Grecia.
«Perché sei venuto nella mia tenda? Non credo che sia consolazione ciò che vai cercando, e nemmeno vendetta: ho saputo di Ettore.»
I due si studiarono per qualche istante in silenzio.
«Ho bisogno che tu mi aiuti a morire, Odisseo. Sei l’unico abbastanza intelligente da riuscire nell’impresa di ingannare uomini, dei e persino oracoli. Sono stanco di questa guerra, stanco di combattere, stanco di uccidere e di veder morire coloro che amo. Voglio uscirne, vivere la mia vita in pace e, lo sai, l’unico modo per farlo è morire.»
Il più astuto tra tutti i Greci osservò muto l’amico per un tempo che a entrambi parve interminabile, poi si gettò sui cuscini, socchiuse gli occhi e prese a parlare a voce molto bassa, poco più che un sussurro:
«Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato, l’ho saputo sin da quando venni a Sciro. Ma, amico mio, devi sapere che il prezzo sarà alto e che il futuro non è mai certo: se dovessimo venire scoperti non ci sarebbe posto al mondo in cui potremmo nasconderci. Non sto scherzando, Apollo è il dio della profezia oltre che del sole, le probabilità che ci scopra non sono basse e, in questa guerra, Poseidone è suo alleato, non potremo sperare di sentirci sicuri nemmeno per mare. Per non parlare dell’Oracolo di Delphi, ha predetto la tua morte e, non c’è bisogno di dirlo, sai bene che non può sbagliare.» si carezzò la corta barba curata mentre meditava sul da farsi: «Tuttavia un modo forse c’è. Basterà concentrarsi sulla parte della profezia che finora hai volutamente ignorato, non garantisco sul risultato ma non è che abbiamo molte alternative. Senza considerare che resta un considerevole rischio per tutti. A volte è più facile morire per davvero, compiendo il proprio destino.»
Per tutta risposta, il più grande guerriero di tutta la Grecia, lo guardò fisso, con un’espressione decisa che non lasciava spazio ad alcun ripensamento: la decisione era presa e il Pelide non sarebbe tornato indietro per nulla al mondo.
«E sia, ora vattene a dormire, testardo di un mirmidone. Riposati e recupera le forze, domani dovrai riscuotere più vite che negli ultimi dieci anni, il tuo compito sarà non lasciare ai troiani altra scelta che rivolgersi agli dei per ucciderti. Ma, prima di andare sul campo di battaglia, passa di qui, ti farò preparare dei calzari speciali per l’occasione: diciamo che ti garantiranno una protezione speciale sul calcagno, so che ti dà qualche problema.» il sovrano di Itaca rivolse al compare un sorriso complice prima di continuare, «Stanotte vedrò tua madre, speriamo che i suoi poteri sapranno metterci a disposizione un cadavere con le tue sembianze, altrimenti il piano avrà fine ancor prima di cominciare. Va’ ora, ho molti preparativi da approntare e poco tempo per farlo. Ci vediamo domattina, all’alba.».
Negli occhi scuri di Odisseo balenò un lampo: per quanto conscio dei rischi, giocare uno scherzo del genere a quelle grandi personalità lo intrigava ed eccitava come neppure Penelope sapeva fare.
Achille lo ascoltò in silenzio per tutto il tempo, si concesse solo un sospiro per le vite che avrebbe dovuto ancora reclamare, ma era disposto a qualsiasi sacrificio per riottenere la propria libertà.
«Grazie, amico mio, ti sarò per sempre debitore, anche se le cose dovessero andare per il verso sbagliato.»
Odisseo lo guardò esterrefatto: era la prima volta che lo sentiva ringraziare qualcuno, la sofferenza del suo animo doveva raggiungere abissi sconosciuti ai normali esseri umani.
Il Pelide uscì dalla tenda a testa bassa, mille voci attorno a lui, ma un unico pensiero che gli attanagliava le tempie.
Queste mani, fatte per impugnare lancia, scudo e spada, sapranno mai abituarsi a falcetto, vomere e rastrello?

«Non m’importa nulla, ti ho chiesto dov’è la mia famiglia!»
Odisseo, abbassando lo sguardo, gli indicò con un cenno del capo il piccolo spiazzo al di fuori della porta, a pochi metri da loro.
Achille ci si avviò titubante e, con la morte nel cuore, aprì gli occhi sul fronte della casa: tra l’erba bruciata che faceva da contraltare alla pietra bianca dell’abitazione, due mucchi di carne carbonizzata giacevano inermi. Li fissò immobile, la paura che fossero davvero Anthia e Galene gli mutò le gambe in blocchi di granito. La consapevolezza della perdita arrivò quando, attorno a uno dei due cadaveri, vide la collana d’argento della sua sposa.
La vista gli si appannò e fu come se mille lance gli trapassassero il cuore, più e più volte, senza pietà. Persino l’aria nei suoi polmoni divenne solida, troppo pesante da respirare. Sentì anni di sogni e speranze infrangersi come vetro fenicio su un pavimento di marmo. Vide le schegge sottili delle sue convinzioni schizzare lontano. Gustò la rabbia che gli colava giù per la gola, calda, familiare, rassicurante, come una vecchia amica sulla quale sai di poter sempre contare.
D’un tratto tutto tornò lucido, nitido, chiaro: il suo corpo scattò verso lo stanzino alla sua destra, i muscoli indolenziti ritrovarono la freschezza e il vigore dei tempi passati e, con un solo colpo, ne sfondarono la massiccia porta di legno rinforzato. Al centro del piccolo sgabuzzino, appesi a un elaborato manichino, la sua lancia e il suo scudo, forgiati da Efesto stesso, splendevano immacolati. Era come se non fosse passato un singolo giorno senza che li avesse curati e lucidati.
Li afferrò d’istinto e un brivido gli percorse le membra: le impugnature lisce si adagiarono docili nei solchi delle sue mani, le dita carezzarono dolci quegli strumenti di morte che, lo capiva solo ora, gli erano mancati. A ogni passo, il peso delle armi bilanciava perfettamente i suoi movimenti: erano finalmente tornati in perfetto equilibrio, come non riuscivano a essere da tanto, troppo tempo.
Si sentiva come se stesse camminando per la prima volta dopo anni.
Odisseo, dall’altra parte della stanza, allungò una mano verso di lui:
«Achille, fermati, quel mostro l’ha forgiato Efesto, non puoi scalfirlo con armi mortali. Ti farai ammazzare.»
Ma l’eroe, in preda all’ebbrezza del ritrovato senso della propria esistenza, era già volato fuori dalla porta ad ampie falcate: tutto, nei suoi movimenti, trasudava una perfezione letale, come un felino che, elegante, si prepara al massacro.
Nel giardino, il basilisco di metallo si era alzato sulle zampe posteriori: era accorto del semidio che gli si faceva incontro. Voltò il capo verso di lui e, senza esitare, gli sputò addosso una cascata di fuoco bianco. Un istante prima che le fiamme lo raggiungessero, lo scudo si alzò e, senza che il guerriero rallentasse la sua corsa, il metallo divino si accese e disperse le fiamme nelle quattro direzioni senza riportare il minimo danno. Il mostro soffiò ancora due volte, ma l’effetto fu il medesimo: Achille continuava ad avanzare imperterrito in linea retta verso di lui, a ogni passo si faceva sempre più basso sul terreno, i muscoli tesi e pronti al balzo.
Non appena l’eroe fu alla distanza giusta, il basilisco si abbassò e cercò di afferrarlo con le zampe anteriori. Il semidio, tuttavia, sembrava aspettare solo quel momento: senza deviare dalla propria traiettoria, scagliò la lancia che, volando tra gli artigli della creatura, le si conficcò in gola, penetrando le bande di metallo con violenta precisione. L’impatto sollevò di nuovo la bestia sulle zampe posteriori mentre, in un goffo e scoordinato tentativo di mantenere l’equilibrio, prese a mulinare le braccia.
Achille non si lasciò sfuggire l’occasione: spiccò un salto sovraumano e si avventò sul collo del basilisco, proprio dove spuntava il manico della lancia, colpendolo con tutto il proprio slancio. Vide il metallo penetrare ancora più a fondo e, mentre la creatura perdeva anche quel briciolo di stabilità che le era rimasto, sentì la punta dell’arma cozzare contro qualcosa di rigido e in movimento. L’impatto di quella massa di ferro contro il suolo, aggiunta al peso dell’eroe, diede il colpo di grazia all’anima metallica del mostro che cedette di schianto spezzandosi a metà.
Il guerriero estrasse l’arma e uno strano liquido nero, denso e viscoso, cominciò a zampillare dalla ferita imbrattando tutto nel raggio di una dozzina di braccia.
Odisseo, fermo sulla porta della casa in fiamme, lo fissava sbalordito:
«Un solo colpo. Spero di non dovermi mai scontrare con te, Achille di Ftia. Inoltre si dice che tu ti fossi liberato della lancia di Efesto.»
«Mi credevi così pazzo da scagliarmi contro quel gigante con una normale lancia di bronzo?»
Il re di Itaca percepì il tono serio dell’amico e la risposta affermativa gli morì in gola.
Pochi passi e il guerriero recuperò anche lo scudo, poi, ancora tremante per la frenesia, aprì i palmi e prese a fissarli con feroce rassegnazione.
No! Destino di queste mani è bagnarsi nel sangue, quello dei nemici come delle persone che amo.

Gli occhi di ghiaccio risaltavano quieti dalla maschera di sangue nero che il basilisco aveva dipinto sul suo volto, la calma omicida che ne traspariva incuteva più timore del mito che da sempre circondava il nome di Achille: il più temibile guerriero della storia.
Il suo sguardo si perse in quello del compagno, acuto e furbo come sempre e i due non ebbero bisogno di parlare per comprendere l’uno le ragioni dell’altro. Odisseo poggiò la mano sulla spalla dell’amico e prese un respiro profondo:
«Il tuo dolore è il mio dolore, fratello. E non chiedere, certo che mi avrai al tuo fianco in quest’impresa: è una cosa che abbiamo cominciato insieme, insieme la finiremo.»
Si strinsero gli avambracci in segno d’intesa, poi Achille si voltò e cominciò a camminare verso il sole morente.
«Non tributi gli onori funebri alla tua famiglia? Sai che, senza obolo, Caronte non traghetterà mai le loro anime attraverso l’Acheronte.»
«Non voglio che lo faccia, dopo che avrò finito con Apollo andrò a riprendermele…»
«E sarà comodo che non si trovino nei domini di Ade, capisco.» Odisseo si morse la lingua per non averci pensato da solo.
Il biondo eroe di Ftia, come colto da una folgorazione, si fermò di colpo e, con aria interrogativa, si rivolse di nuovo all’amico:
«Come ha saputo del nostro inganno?»
«L’Oracolo di Delphi. Ha predetto che se il mai morto Pelide Achille, legittimo re dei Mirmidoni, fosse giunto incolume al solstizio d’estate, avrebbe distrutto il Sole dell’Arte. O qualcosa del genere. Si dice che Apollo abbia riso in un primo momento ma, lo sai, l’Oracolo di Delphi non sbaglia mai, ha dovuto credergli.»
«Con me ha sbagliato già una volta.» rispose Achille con un’espressione seria.
«Devi augurarti che non si sbagli questa volta!» ribatté Odisseo.
«Già. Quindi mancano solo ventuno giorni, poi avrò la mia vendetta.»
«Sempre che tu riesca a rimanere vivo tanto a lungo.»
L’eroe sorrise, pregustando il momento in cui la sua lancia si sarebbe infilata nel cuore del dio.
Si allontanarono a passo spedito dalla casa ancora in fiamme, il cui tetto finì di crollare in uno schianto, contornato dallo scoppiettio ininterrotto del rogo.
Nessuno dei due si voltò: continuarono a camminare, decisi a lasciarsi il passato alle spalle.
Gli eroi hanno bisogno di imprese da compiere e loro si erano appena imbarcati nella più pericolosa che il genere umano avesse mai conosciuto.
Vedremo come staranno le mie mani, immerse nel sangue di un Dio.

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