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martedì 27 novembre 2012

Libera prigionia

Racconto terzo classificato alla mia prima partecipazione al contest chiamato "minuti contati", concorso in cui si hanno manciate di minuti per scrivere e pubblicare il racconto. Questo, nello specifico, è stato ideato, ragionato, scritto, riletto e corretto in 22 minuti. Bella esperienza.
Il tema dell'edizione era "un giorno ancora".



Libera prigionia



Il ticchettio del cronografo da polso accompagnava il sussurrato sillabare della voce strozzata:
-Uno, due, tre, quattro, cinque, sei…
Il polso batteva all’impazzata sotto i polpastrelli: diciannove battiti in sei secondi, centonovanta al minuto.
Morgan contrasse gli addominali in una smorfia di dolore cercando di trattenere i conati di vomito, i muscoli delle gambe bruciavano come percorsi da fuoco liquido. Trenta secondi e stava già tornando presente a se stesso: pulsazioni sotto i cento e niente più fitte tra le coste a ogni respiro.
Si rannicchiò stretto in un angolino del pertugio tra le rocce in cui aveva trovato riparo e, attraverso le labbra socchiuse, si fece strada il salmo ventisei.
Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò timore?

-Le lande del Gurtan, l’unico posto della Galassia in cui gli esseri umani non sono al vertice della catena alimentare.
L’Alto Funzionario Kowalski sogghignò di gusto guardando il direttore del Pianeta Prigione mentre questo, impettito e riverente, continuava ad annuire in modo viscido e servile.
-Esatto, Vostra Grazia, potete riferire all’Imperatore che i prigionieri qui sono trattati seguendo alla lettera le Sue direttive. Nessun riparo, nessuna arma, nessuna certezza. La fuga come unica possibilità per sopravvivere ai Kra…
-Tacete, Direttore,- il Funzionario lo interruppe stizzito, -prima che io interpreti le vostre parole come un tentativo di insinuare che io non conosca le direttive dell’Imperatore. Poi voglio godermi lo spettacolo.
E ritornò con lo sguardo sul grosso schermo su cui l’uomo, denutrito e sporco, piagnucolava chissà quale follia.

Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò terrore?
I passi pesanti del Krataal erano ormai vicini: una serie di lente scosse che facevano tremare ogni cosa nel raggio di decine di metri.
Morgan chiuse gli occhi con tutta la forza di cui era capace. Poteva sentire il respiro rauco della creatura appena fuori dalla spaccatura, le zanne sfregare l’una sull’altra come unghie su una lavagna.
Quando mi assalgono i malvagi per straziarmi la carne.
Il Krataal si fermò di colpo e il suo alito fetido riempì frenetico la spaccatura mentre con le narici analizzava gli odori del pertugio: l’aveva fiutato, era finito, non avrebbe visto un altro giorno.
Le possenti zampe si abbatterono sulla parete di roccia cominciando a scavare.
Sono essi, avversari e nemici, a inciampare e cadere.
Un altro colpo e, proprio quando sembrava che tutto fosse perduto, un enorme costone si staccò da sotto le zampe della creatura che perse l’equilibrio e cadde, con tutto il proprio peso, tra le guglie basaltiche, affilate come rasoi. Un tonfo sordo, un rantolio sommesso, una cascata di sangue verde a macchiare la pietra nera. Poi la quiete.
Inni di gioia canterò al Signore.

Il Funzionario sorrise spegnendo lo schermo:
-Amen, prigioniero, vivrai un giorno ancora.
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lunedì 12 novembre 2012

Uomini Liberi


Racconto secondo classificato alla seconda edizione del “666 passi nel delirio”, concorso per racconti a tema variabile (in questa edizione era il Natale) da 666 parole. Selezionato per entrare a far parte della raccolta con i migliori brani dell’edizione che sarà pubblicata su ebook in una non ben precisata data, comunque prima di Natale.


UOMINI LIBERI

Ricordo tutto come fosse ieri: era la sera del 24 dicembre del 1914 quando il soldato Wilson, un ragazzetto appena diciottenne con lo sguardo dell’idealista dalle ore contate, entrò trafelato nella mia tenda.
“Deve venire subito a vedere, Signore.”
“Che succede, soldato?”
“Deve vedere con i suoi occhi, Signore.”

Sul campo di battaglia aleggiava un’atmosfera cupa: la bruma riluceva spettrale sotto il primo quarto di luna, nascondendo tra le sue spire centinaia di cadaveri, pesante lascito degli scontri di giornata.
Nel silenzio, dalle file nemiche si alzò un coro di voci: Adeste fideles, laeti triumphantes.
Ci può credere? Cantavano.
“Che diavolo combinano i crauti?” imprecai.
Nello sbigottimento generale, il soldato Wilson abbandonò la trincea e uscì in campo aperto rispondendo al canto con voce stentorea: natum videte, Regem angelorum.
“Torna indietro, idiota!”
Non sono mai stato un uomo di fede, tantomeno un idealista: ero certo che quello stupido si sarebbe fatto ammazzare. Ma, quando anche tutto il resto del reggimento uscì per unirsi al canto, beh, quella certezza vacillò.
Volevo mettere in guardia anche gli altri uomini, dir loro di tornare in trincea, di non cadere nel tranello.
Invece l’emozione mi ridusse al silenzio: completamente rapito dalla magia di pace che stava prendendo vita d’innanzi ai miei occhi.

Non credo che esistano parole per descrivere quanto accadde quella notte: lei pensi a un Natale in cui dei soldati, nemici che nemmeno parlano la stessa lingua, lasciano a terra le armi e si abbracciano come fratelli, scambiandosi con gioia quel poco che hanno. Li immagini scavare fianco a fianco nel fango per seppellire quegli uomini che loro stessi avevano ucciso. Immagini le loro lacrime mischiarsi su quel terreno dove già si era mischiato il loro sangue.
Quella notte non ci furono inglesi né tedeschi, solo uomini che seppero distruggere il muro d’odio che era stato posto tra loro.
Il dolore non guarda al colore di una divisa, la sofferenza urla allo stesso modo in tutte le lingue, la morte non discerne tra fazioni.
Così, di fronte a tutto ciò, quegli uomini risposero all’odio con la fratellanza, alla guerra con la pace, uniti nel nome di Nostro Signore nel Suo Santo Natale.

La tregua proseguì anche l’indomani. Sapevamo che non sarebbe durata: non avevamo dimenticato la propaganda fatta dai governi per convincerci a odiarci l’un l’altro. Eravamo consci del fatto che quello che stava succedendo era uno schiaffo a tutto ciò che le alte sfere ci avevano inculcato. Ma ormai avevamo aperto gli occhi, avevamo capito: non esiste una guerra giusta, la libertà non è vedere un nemico negli occhi di un uomo che muore, è vedere se stessi negli occhi di un uomo che vive. Questo, nessuno ce l’avrebbe mai più tolto.
Mangiammo e bevemmo tutti alla stessa tavola, ridemmo come fosse il primo giorno della nostra vita.
O forse l’ultimo.

-E come finì la vicenda?
-Finì male, padre. La mattina successiva arrivò al Campo il Generale Murdoch con una lettera firmata da Re Giorgio V in persona. Fummo tutti condannati a morte per alto tradimento: l’esercito non tollera che i soldati abbiano un cuore, tantomeno una coscienza. Io sono qui solo perché un ufficiale del mio grado deve venire giudicato da un’intera giuria di suoi pari. Per questo ho dovuto aspettare la fine della guerra, lo sa quanto sono lunghi quattro anni in una cella d’isolamento?
-È una storia incredibile, Capitano. Le prometto che sarà pubblicata, tutta l’Inghilterra saprà.
Sussurra l’uomo vestito da prete mentre finisce di stenografare su un logoro taccuino di pelle.
-Me lo auguro. Ma ora forse è meglio che se ne vada, ho sentito che l’esercito non vede di buon occhio i giornalisti che si spacciano per preti.
Gli sorrido mentre nasconde gli appunti sotto la talare.
Un cigolio, una guardia fa capolino nella cella:
-È ora.
-Ego te absolvo in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti.
Un rapido segno della croce e mi avvio, senza nemmeno aver toccato il mio ultimo pasto, verso il mio destino.
In catene, ma libero.

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