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martedì 27 novembre 2012

Libera prigionia

Racconto terzo classificato alla mia prima partecipazione al contest chiamato "minuti contati", concorso in cui si hanno manciate di minuti per scrivere e pubblicare il racconto. Questo, nello specifico, è stato ideato, ragionato, scritto, riletto e corretto in 22 minuti. Bella esperienza.
Il tema dell'edizione era "un giorno ancora".



Libera prigionia



Il ticchettio del cronografo da polso accompagnava il sussurrato sillabare della voce strozzata:
-Uno, due, tre, quattro, cinque, sei…
Il polso batteva all’impazzata sotto i polpastrelli: diciannove battiti in sei secondi, centonovanta al minuto.
Morgan contrasse gli addominali in una smorfia di dolore cercando di trattenere i conati di vomito, i muscoli delle gambe bruciavano come percorsi da fuoco liquido. Trenta secondi e stava già tornando presente a se stesso: pulsazioni sotto i cento e niente più fitte tra le coste a ogni respiro.
Si rannicchiò stretto in un angolino del pertugio tra le rocce in cui aveva trovato riparo e, attraverso le labbra socchiuse, si fece strada il salmo ventisei.
Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò timore?

-Le lande del Gurtan, l’unico posto della Galassia in cui gli esseri umani non sono al vertice della catena alimentare.
L’Alto Funzionario Kowalski sogghignò di gusto guardando il direttore del Pianeta Prigione mentre questo, impettito e riverente, continuava ad annuire in modo viscido e servile.
-Esatto, Vostra Grazia, potete riferire all’Imperatore che i prigionieri qui sono trattati seguendo alla lettera le Sue direttive. Nessun riparo, nessuna arma, nessuna certezza. La fuga come unica possibilità per sopravvivere ai Kra…
-Tacete, Direttore,- il Funzionario lo interruppe stizzito, -prima che io interpreti le vostre parole come un tentativo di insinuare che io non conosca le direttive dell’Imperatore. Poi voglio godermi lo spettacolo.
E ritornò con lo sguardo sul grosso schermo su cui l’uomo, denutrito e sporco, piagnucolava chissà quale follia.

Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò terrore?
I passi pesanti del Krataal erano ormai vicini: una serie di lente scosse che facevano tremare ogni cosa nel raggio di decine di metri.
Morgan chiuse gli occhi con tutta la forza di cui era capace. Poteva sentire il respiro rauco della creatura appena fuori dalla spaccatura, le zanne sfregare l’una sull’altra come unghie su una lavagna.
Quando mi assalgono i malvagi per straziarmi la carne.
Il Krataal si fermò di colpo e il suo alito fetido riempì frenetico la spaccatura mentre con le narici analizzava gli odori del pertugio: l’aveva fiutato, era finito, non avrebbe visto un altro giorno.
Le possenti zampe si abbatterono sulla parete di roccia cominciando a scavare.
Sono essi, avversari e nemici, a inciampare e cadere.
Un altro colpo e, proprio quando sembrava che tutto fosse perduto, un enorme costone si staccò da sotto le zampe della creatura che perse l’equilibrio e cadde, con tutto il proprio peso, tra le guglie basaltiche, affilate come rasoi. Un tonfo sordo, un rantolio sommesso, una cascata di sangue verde a macchiare la pietra nera. Poi la quiete.
Inni di gioia canterò al Signore.

Il Funzionario sorrise spegnendo lo schermo:
-Amen, prigioniero, vivrai un giorno ancora.
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lunedì 12 novembre 2012

Uomini Liberi


Racconto secondo classificato alla seconda edizione del “666 passi nel delirio”, concorso per racconti a tema variabile (in questa edizione era il Natale) da 666 parole. Selezionato per entrare a far parte della raccolta con i migliori brani dell’edizione che sarà pubblicata su ebook in una non ben precisata data, comunque prima di Natale.


UOMINI LIBERI

Ricordo tutto come fosse ieri: era la sera del 24 dicembre del 1914 quando il soldato Wilson, un ragazzetto appena diciottenne con lo sguardo dell’idealista dalle ore contate, entrò trafelato nella mia tenda.
“Deve venire subito a vedere, Signore.”
“Che succede, soldato?”
“Deve vedere con i suoi occhi, Signore.”

Sul campo di battaglia aleggiava un’atmosfera cupa: la bruma riluceva spettrale sotto il primo quarto di luna, nascondendo tra le sue spire centinaia di cadaveri, pesante lascito degli scontri di giornata.
Nel silenzio, dalle file nemiche si alzò un coro di voci: Adeste fideles, laeti triumphantes.
Ci può credere? Cantavano.
“Che diavolo combinano i crauti?” imprecai.
Nello sbigottimento generale, il soldato Wilson abbandonò la trincea e uscì in campo aperto rispondendo al canto con voce stentorea: natum videte, Regem angelorum.
“Torna indietro, idiota!”
Non sono mai stato un uomo di fede, tantomeno un idealista: ero certo che quello stupido si sarebbe fatto ammazzare. Ma, quando anche tutto il resto del reggimento uscì per unirsi al canto, beh, quella certezza vacillò.
Volevo mettere in guardia anche gli altri uomini, dir loro di tornare in trincea, di non cadere nel tranello.
Invece l’emozione mi ridusse al silenzio: completamente rapito dalla magia di pace che stava prendendo vita d’innanzi ai miei occhi.

Non credo che esistano parole per descrivere quanto accadde quella notte: lei pensi a un Natale in cui dei soldati, nemici che nemmeno parlano la stessa lingua, lasciano a terra le armi e si abbracciano come fratelli, scambiandosi con gioia quel poco che hanno. Li immagini scavare fianco a fianco nel fango per seppellire quegli uomini che loro stessi avevano ucciso. Immagini le loro lacrime mischiarsi su quel terreno dove già si era mischiato il loro sangue.
Quella notte non ci furono inglesi né tedeschi, solo uomini che seppero distruggere il muro d’odio che era stato posto tra loro.
Il dolore non guarda al colore di una divisa, la sofferenza urla allo stesso modo in tutte le lingue, la morte non discerne tra fazioni.
Così, di fronte a tutto ciò, quegli uomini risposero all’odio con la fratellanza, alla guerra con la pace, uniti nel nome di Nostro Signore nel Suo Santo Natale.

La tregua proseguì anche l’indomani. Sapevamo che non sarebbe durata: non avevamo dimenticato la propaganda fatta dai governi per convincerci a odiarci l’un l’altro. Eravamo consci del fatto che quello che stava succedendo era uno schiaffo a tutto ciò che le alte sfere ci avevano inculcato. Ma ormai avevamo aperto gli occhi, avevamo capito: non esiste una guerra giusta, la libertà non è vedere un nemico negli occhi di un uomo che muore, è vedere se stessi negli occhi di un uomo che vive. Questo, nessuno ce l’avrebbe mai più tolto.
Mangiammo e bevemmo tutti alla stessa tavola, ridemmo come fosse il primo giorno della nostra vita.
O forse l’ultimo.

-E come finì la vicenda?
-Finì male, padre. La mattina successiva arrivò al Campo il Generale Murdoch con una lettera firmata da Re Giorgio V in persona. Fummo tutti condannati a morte per alto tradimento: l’esercito non tollera che i soldati abbiano un cuore, tantomeno una coscienza. Io sono qui solo perché un ufficiale del mio grado deve venire giudicato da un’intera giuria di suoi pari. Per questo ho dovuto aspettare la fine della guerra, lo sa quanto sono lunghi quattro anni in una cella d’isolamento?
-È una storia incredibile, Capitano. Le prometto che sarà pubblicata, tutta l’Inghilterra saprà.
Sussurra l’uomo vestito da prete mentre finisce di stenografare su un logoro taccuino di pelle.
-Me lo auguro. Ma ora forse è meglio che se ne vada, ho sentito che l’esercito non vede di buon occhio i giornalisti che si spacciano per preti.
Gli sorrido mentre nasconde gli appunti sotto la talare.
Un cigolio, una guardia fa capolino nella cella:
-È ora.
-Ego te absolvo in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti.
Un rapido segno della croce e mi avvio, senza nemmeno aver toccato il mio ultimo pasto, verso il mio destino.
In catene, ma libero.

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mercoledì 31 ottobre 2012

Il cuore è il tallone di Achille

Secondo classificato allo skannatoio di Ottobre nonostante i giudizi altalenanti.


Il cuore è il tallone di Achille

Il sole cominciava a calare sui vitigni che striavano il fianco della collina. Le ombre degli aranci, delle palme da datteri e degli altri alberi da frutto si allungavano sul terriccio scuro dei campi sul versante ovest, a ridosso della modesta casa rurale che dominava il paesaggio.
Athanasios raccolse una melagrana caduta a terra e si riempì la bocca di semi. La polpa era dolce: il tempo della raccolta era ormai giunto anche quell’anno.
Alzò lo sguardo verso l’edificio di pietra bianca dove la piccola Galene, in un vestito ocra, alternava pochi passi di corsa scoordinata alla risata che sapeva sempre sciogliergli il cuore. All’altro capo di quei gridolini divertiti, Anthia raccoglieva fiori di campo e, di quando in quando, fingeva di inseguire la piccola che riprendeva a scappare strillando felice.
Athanasios, a quella distanza, non capiva nemmeno una parola di quanto si stessero dicendo la moglie e la figlia, ma sentiva il cuore colmo di una gioia quieta e pacificatrice mentre le guardava inseguirsi nell’erba: dopo tanti anni di sangue, furia e dolore, forse aveva trovato la serenità che, da sempre, ogni uomo va cercando.
La forza di quel pensiero gli rimbombò in testa, facendovi risuonare un’eco di scudi frantumati e carni lacerate; anche a occhi aperti poteva vedere quei volti, sentire le loro vite spegnersi tra le sue mani. Si portò d’istinto i palmi al volto, ma la visione era già svanita, il dolore evaporato. Scese con lo sguardo sulle dita e le trovò sporche, ma solo di terra. Un sorriso gli si aprì sul viso.
Tornò a fissare la sua famiglia e, in un attimo, tutto fu di nuovo perfetto: il sole morente abbracciava e custodiva il suo tesoro più grande.
Sono lontani i tempi in cui queste mani erano striate dal sangue incrostato di uomini ed eroi.

«Che buono! Ma chi l’ha cucinata questa delizia?» sorrise Athanasios, infilandosi in bocca l’ultima cucchiaiata di minestra.
Galene, aggrappata con i gomiti al tavolo troppo alto per i suoi tre anni, sorrise gioiosa e provò a indicare la madre seduta di fronte a lei: appena sollevò il braccio dal legno, però, perse l’equilibrio e capitombolò a terra.
«Quante volte ti ho detto di stare seduta composta?» Anthia sbuffò mentre afferrava sotto le ascelle la piccola per rimetterla a sedere.
Gli occhi della bambina riemersero vispi dal bordo del tavolo e, dopo un attimo di silenzio, tutti proruppero in una risata.
«Attenta, piccola mia, nemmeno il tuo grande padre può permettersi di disobbedire alla mamma, altrimenti…» sorrise ancora, mentre la moglie si portava ironica una ciocca dei lunghi capelli biondi davanti al viso imbronciato e Galena rideva sguaiata.
«E va bene, ora basta. Tu, signorina, alzati, è ora di andare a letto.» disse la donna ancora in piedi.
«Ma io voglio stare con papà.»
«Ricordati, principessa, mai disobbedire alla mamma.» l’apostrofò lui.
«Va bene.» rispose mogia la piccola: era così raro che potesse sedersi a tavola con i grandi che, quando succedeva, era sempre difficile convincerla ad alzarsi.
Anthia la prese in braccio e sparì rapida su per le scale mentre, da sopra la sua spalla, Galena regalava a suo padre un ultimo sorriso.
Quando la donna fu di ritorno, Athanasios era ancora seduto al proprio posto e lei gli si accovacciò dietro, abbracciandolo stretto e poggiandogli la guancia tra le spalle.
«Sono due giorni che mi trascuri, marito mio, non ti piaccio forse più?»
L’uomo si alzò di scatto dalla sedia e, libero dalla presa della moglie, le strinse i fianchi con forza, fissandola irritato.
Lo sguardo della donna era languido: lo aveva raggirato un’altra volta. Athanasios si rese conto che aveva fatto esattamente il suo gioco, ma non si scompose, anzi, la strinse con ancora più forza, finché le scappò un gemito, quindi la sollevò di forza e la mise a sedere sul pesante tavolo in legno ancora apparecchiato.
«Allora mi desideri ancora.» gli ansimò a labbra socchiuse accanto all’orecchio.
«E tu? Tu mi desideri ancora?»
Anthia appoggiò un avambraccio  tra piatti e posate e, con un gesto rapido, gettò tutto a terra.
«Amore mio, fammi sentire che desideri me e solo me.»
Gli cinse il viso con le mani e se lo tirò al petto, guidando le sue labbra attraverso lo spacco della veste, verso i suoi seni.
L’uomo la afferrò sotto le cosce ambrate e, con il proprio peso, la costrinse sul tavolo, mentre le mani scendevano verso le ginocchia che si allargarono docili, incapaci di opporre alcuna resistenza.
Queste mani vogliono solo stringere il tuo corpo per amare, non più armi per uccidere.

La lancia penetra senza esitazione il primo nemico, il nemico dietro di lui, e quello dopo ancora. La rabbia mi scorre bollente nelle vene, mi brucia le carni alimentando se stessa. La sete di sangue è implacabile, la gola arsa non sa trovare sollievo nel rosso troiano che scorre a fiumi sul campo di battaglia. Sul volto di ogni uomo in ginocchio vedo il Suo e i nemici vengono falciati come spighe di grano: ogni mio fendente miete vite a manciate, ma la Vendetta ne esige ancora, sempre di più, insaziabile come le cosce delle finte vergini ateniesi.
Un altro affondo, ancora un fendente, un colpo con lo scudo alla gola di un ragazzo che avrà circa la Sua età. Le mie mani tengono le impugnature con naturalezza, come fosse il loro unico scopo: annegano sogni e speranze in quel bagno di sangue alimentato dalla mia cieca ferocia. Vorrei fermarmi, ma so che non lo farò, almeno fino a quando non l’avrò trovato.
Eccolo, Ettore, le cui mani sono ancora macchiate di Lui, riesco ancora a vederlo mentre gli strappa la vita dal petto invocando il mio nome.
Mi sfida con lo sguardo e comincia a camminare verso di me. Il campo di battaglia si apre per farci spazio, nella vana speranza di non incappare nella mia furia. Sento nel petto un fuoco malsano consumare la mia umanità, il profumo della morte mi inebria, la memoria di Patroclo consegna a Caronte abbastanza lavoro per dieci vite.
Nessun troiano vivrà per raccontare ai figli il significato della furia di Achille.
Ettore tenta un affondo, ma è un semplice umano. È la sua superbia a condannarlo a morte, quella luce nei suoi occhi che sorride beffarda è come zolfo sulle fiamme della mia ira. Gli afferro il polso e comincio a torcerlo, cade in ginocchio in una smorfia di dolore, mentre io, implacabile, con l’altra mano gli afferro la gola. Le dita penetrano la carne, sento il suo pomo d’Adamo dibattersi come un pesce morente, il sangue rende tutto scivoloso ma la mia presa è ferrea: sappiamo entrambi come finirà.
Nel momento in cui il suo cuore si ferma, il mio riprende a battere. Il mondo torna infine ad assumere dei contorni definiti, dei colori distinti. Lo sguardo si posa sulla sinfonia di morte che mi circonda: espressioni contratte su visi senza vita, tutti quegli occhi che mi fissano attraverso il vuoto, le bocche spalancate in migliaia di assordanti grida silenti.
«Portatemi una fune! E il mio carro!» intimo ai mirmidoni mentre, dalle mani, mi gocciola ancora il sangue caldo dell’assassino di mio fratello.
Athanasios scattò a sedere sul talamo, la veste madida di sudore e i polmoni oppressi da un peso invisibile.
«Amore mio, un altro incubo?»
Doveva aver urlato svegliandosi: Anthia era seduta accanto a lui che lo guardava con gli occhi sbarrati.
«Già.»
La donna lo tirò a sé poggiandogli la testa sul proprio grembo.
«Vieni qui, raccontami cosa ti turba.»
L’uomo la strinse disperato tra le lacrime, provando a rimanere aggrappato a quel fragile sogno che era la sua nuova vita. In fondo al cuore l’insana paura che un giorno non lontano, riaprendo gli occhi, l’avrebbe visto svanire, evanescente immagine di una felicità effimera insidiata da oscuri presagi.
Ho paura. Come può un uomo combattere il proprio destino, la propria natura, quando il sangue dalle sue mani non può essere lavato?

Il sole non era ancora basso sull’orizzonte quando Athanasios decise che, per quella giornata, aveva lavorato a sufficienza: dopo l’incubo della notte precedente, gli era rimasta cucita addosso una fastidiosa mestizia, solo riabbracciare Anthia e Galene gli avrebbe risollevato l’umore.
Si avviò a passo tranquillo attraverso le vigne quando, d’improvviso, la brezza gli portò alle narici una tenue puzza di bruciato.
Si fermò ad annusare meglio l’aria e un brivido gli corse lungo la schiena: conosceva bene quell’odore acre, denso, pungente, lo aveva sentito infinite volte mentre metteva a ferro e fuoco città e villaggi.
La paura s’impossessò del suo cuore e gli mise le ali ai piedi. Più si avvicinava a casa, più il lezzo si faceva intenso. Arrivato in cima alla collina, scorse anche la densa colonna di fumo nero che si levava nel cielo, strangolando ogni sua residua speranza che non fosse accaduto nulla di grave.
Si precipitò verso casa correndo in linea retta, ignorando sentieri, ostacoli, salti.
A pochi metri dall’edificio, però, si fermò di colpo: un enorme basilisco di metallo, lungo quasi quanto l’abitazione, sbucò da dietro un angolo e sputò un getto di fuoco bianco e intenso, riducendo in cenere tutte le piante del piccolo orto domestico.
Prima che il mostro riuscisse a scorgerlo, l’uomo fece uno scatto e saltò in una delle finestre della casa passando attraverso i tendaggi in fiamme della sala da pranzo. Atterrò sul grosso tavolo in legno che cedette di schianto facendolo rovinare a terra, strinato e dolorante.
Stava per rialzarsi quando un gelido e appuntito tocco metallico gli sfiorò la nuca.
«Lentamente, ragazzo, molto lentamente.» gli disse, da dietro le spalle, una voce profonda e appena sussurrata.
Athanasios si mise in piedi e, con le mani sollevate, si voltò piano.
Sentì un tuffo al cuore quando, nell’individuo di fronte a sé, riconobbe Odisseo. La stessa espressione sorpresa si dipinse anche sul volto dell’uomo armato che, riconosciuto l’’amico, abbassò la spada:
«Achille, per Giove, pensavo di essere arrivato troppo tardi.»
«Non usare quel nome! Da queste parti nessuno sa chi sono. Piuttosto, come mai sei qui?»
«Mi manda Teti, sono venuto ad avvertirti del pericolo imminente, ma vedo che il pericolo ti ha trovato prima di me.»
Achille si scostò dal viso i capelli biondi già striati dalla fuliggine e si accovacciò sul pavimento:
«Che storia è questa? Dov’è la mia famiglia?»
L’amico gli si accucciò accanto e gli mise una mano sulla spalla:
«Apollo ti ha scoperto e, non c’è bisogno di dirlo, non l’ha presa bene. Quella bestia là fuori se l’è fatta costruire da Efesto in persona, e temo che non si fermerà fino a quando non ti avrà trovato e ucciso. Il Dio del Sole non è famoso per la sua misericordia. Gli hai fatto fare la figura dell’idiota, non puoi biasimarlo se ora brama vendetta.»
«Vorrai dire che gli “abbiamo” fatto fare la figura dell’idiota.» lo corresse l’amico, subito prima che un’esplosione facesse crollare accanto a loro una porzione del tetto.
Persino a distanza di anni le mie mani fremono non appena sentono il profumo della battaglia.

«Odisseo, Patroclo è morto.»
Achille si gettò sui cuscini della tenda dell’amico, il volto scuro e inespressivo.
«Ho saputo, Achille. Mi unisco a te nel cordoglio per questa perdita. Sei più di un fratello per me e lui era più di un fratello per te. Vieni, piangiamo insieme la sua scomparsa.»
«Non ci sono più lacrime da versare in questi occhi, non sento più nulla. Niente dolore, niente rabbia, niente ardore, nessun desiderio di vendetta. Mi sento vuoto. Che senso ha tutto questo, Odisseo? Che senso ha? Una guerra per capriccio, perché un re inetto non ha saputo tenere a freno le voglie della sua sposa puttana. Ma io non ho visto nessun re greco immerso fino ai gomiti nel sangue e nelle viscere dei suoi compagni, nessun re a dimostrare il proprio valore sul campo.»
«Comprendo le tue motivazioni, amico mio, ma dovresti essere più accorto nel pronunciare tali parole, se ti sentisse qualcuno?»
Achille si alzò in piedi, una scintilla d’odio negli occhi vacui.
«Agamennone sa cosa penso di lui e di suo fratello, se volesse espormi le sue rimostranze, saprebbe bene dove trovarmi: la mia tenda è nello stesso posto da dieci anni.»
Il tono dell’eroe dai capelli biondi era secco e deciso, sapevano entrambi che nessuno avrebbe mai osato sfidare apertamente Achille, nemmeno i re di tutta la Grecia.
«Perché sei venuto nella mia tenda? Non credo che sia consolazione ciò che vai cercando, e nemmeno vendetta: ho saputo di Ettore.»
I due si studiarono per qualche istante in silenzio.
«Ho bisogno che tu mi aiuti a morire, Odisseo. Sei l’unico abbastanza intelligente da riuscire nell’impresa di ingannare uomini, dei e persino oracoli. Sono stanco di questa guerra, stanco di combattere, stanco di uccidere e di veder morire coloro che amo. Voglio uscirne, vivere la mia vita in pace e, lo sai, l’unico modo per farlo è morire.»
Il più astuto tra tutti i Greci osservò muto l’amico per un tempo che a entrambi parve interminabile, poi si gettò sui cuscini, socchiuse gli occhi e prese a parlare a voce molto bassa, poco più che un sussurro:
«Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato, l’ho saputo sin da quando venni a Sciro. Ma, amico mio, devi sapere che il prezzo sarà alto e che il futuro non è mai certo: se dovessimo venire scoperti non ci sarebbe posto al mondo in cui potremmo nasconderci. Non sto scherzando, Apollo è il dio della profezia oltre che del sole, le probabilità che ci scopra non sono basse e, in questa guerra, Poseidone è suo alleato, non potremo sperare di sentirci sicuri nemmeno per mare. Per non parlare dell’Oracolo di Delphi, ha predetto la tua morte e, non c’è bisogno di dirlo, sai bene che non può sbagliare.» si carezzò la corta barba curata mentre meditava sul da farsi: «Tuttavia un modo forse c’è. Basterà concentrarsi sulla parte della profezia che finora hai volutamente ignorato, non garantisco sul risultato ma non è che abbiamo molte alternative. Senza considerare che resta un considerevole rischio per tutti. A volte è più facile morire per davvero, compiendo il proprio destino.»
Per tutta risposta, il più grande guerriero di tutta la Grecia, lo guardò fisso, con un’espressione decisa che non lasciava spazio ad alcun ripensamento: la decisione era presa e il Pelide non sarebbe tornato indietro per nulla al mondo.
«E sia, ora vattene a dormire, testardo di un mirmidone. Riposati e recupera le forze, domani dovrai riscuotere più vite che negli ultimi dieci anni, il tuo compito sarà non lasciare ai troiani altra scelta che rivolgersi agli dei per ucciderti. Ma, prima di andare sul campo di battaglia, passa di qui, ti farò preparare dei calzari speciali per l’occasione: diciamo che ti garantiranno una protezione speciale sul calcagno, so che ti dà qualche problema.» il sovrano di Itaca rivolse al compare un sorriso complice prima di continuare, «Stanotte vedrò tua madre, speriamo che i suoi poteri sapranno metterci a disposizione un cadavere con le tue sembianze, altrimenti il piano avrà fine ancor prima di cominciare. Va’ ora, ho molti preparativi da approntare e poco tempo per farlo. Ci vediamo domattina, all’alba.».
Negli occhi scuri di Odisseo balenò un lampo: per quanto conscio dei rischi, giocare uno scherzo del genere a quelle grandi personalità lo intrigava ed eccitava come neppure Penelope sapeva fare.
Achille lo ascoltò in silenzio per tutto il tempo, si concesse solo un sospiro per le vite che avrebbe dovuto ancora reclamare, ma era disposto a qualsiasi sacrificio per riottenere la propria libertà.
«Grazie, amico mio, ti sarò per sempre debitore, anche se le cose dovessero andare per il verso sbagliato.»
Odisseo lo guardò esterrefatto: era la prima volta che lo sentiva ringraziare qualcuno, la sofferenza del suo animo doveva raggiungere abissi sconosciuti ai normali esseri umani.
Il Pelide uscì dalla tenda a testa bassa, mille voci attorno a lui, ma un unico pensiero che gli attanagliava le tempie.
Queste mani, fatte per impugnare lancia, scudo e spada, sapranno mai abituarsi a falcetto, vomere e rastrello?

«Non m’importa nulla, ti ho chiesto dov’è la mia famiglia!»
Odisseo, abbassando lo sguardo, gli indicò con un cenno del capo il piccolo spiazzo al di fuori della porta, a pochi metri da loro.
Achille ci si avviò titubante e, con la morte nel cuore, aprì gli occhi sul fronte della casa: tra l’erba bruciata che faceva da contraltare alla pietra bianca dell’abitazione, due mucchi di carne carbonizzata giacevano inermi. Li fissò immobile, la paura che fossero davvero Anthia e Galene gli mutò le gambe in blocchi di granito. La consapevolezza della perdita arrivò quando, attorno a uno dei due cadaveri, vide la collana d’argento della sua sposa.
La vista gli si appannò e fu come se mille lance gli trapassassero il cuore, più e più volte, senza pietà. Persino l’aria nei suoi polmoni divenne solida, troppo pesante da respirare. Sentì anni di sogni e speranze infrangersi come vetro fenicio su un pavimento di marmo. Vide le schegge sottili delle sue convinzioni schizzare lontano. Gustò la rabbia che gli colava giù per la gola, calda, familiare, rassicurante, come una vecchia amica sulla quale sai di poter sempre contare.
D’un tratto tutto tornò lucido, nitido, chiaro: il suo corpo scattò verso lo stanzino alla sua destra, i muscoli indolenziti ritrovarono la freschezza e il vigore dei tempi passati e, con un solo colpo, ne sfondarono la massiccia porta di legno rinforzato. Al centro del piccolo sgabuzzino, appesi a un elaborato manichino, la sua lancia e il suo scudo, forgiati da Efesto stesso, splendevano immacolati. Era come se non fosse passato un singolo giorno senza che li avesse curati e lucidati.
Li afferrò d’istinto e un brivido gli percorse le membra: le impugnature lisce si adagiarono docili nei solchi delle sue mani, le dita carezzarono dolci quegli strumenti di morte che, lo capiva solo ora, gli erano mancati. A ogni passo, il peso delle armi bilanciava perfettamente i suoi movimenti: erano finalmente tornati in perfetto equilibrio, come non riuscivano a essere da tanto, troppo tempo.
Si sentiva come se stesse camminando per la prima volta dopo anni.
Odisseo, dall’altra parte della stanza, allungò una mano verso di lui:
«Achille, fermati, quel mostro l’ha forgiato Efesto, non puoi scalfirlo con armi mortali. Ti farai ammazzare.»
Ma l’eroe, in preda all’ebbrezza del ritrovato senso della propria esistenza, era già volato fuori dalla porta ad ampie falcate: tutto, nei suoi movimenti, trasudava una perfezione letale, come un felino che, elegante, si prepara al massacro.
Nel giardino, il basilisco di metallo si era alzato sulle zampe posteriori: era accorto del semidio che gli si faceva incontro. Voltò il capo verso di lui e, senza esitare, gli sputò addosso una cascata di fuoco bianco. Un istante prima che le fiamme lo raggiungessero, lo scudo si alzò e, senza che il guerriero rallentasse la sua corsa, il metallo divino si accese e disperse le fiamme nelle quattro direzioni senza riportare il minimo danno. Il mostro soffiò ancora due volte, ma l’effetto fu il medesimo: Achille continuava ad avanzare imperterrito in linea retta verso di lui, a ogni passo si faceva sempre più basso sul terreno, i muscoli tesi e pronti al balzo.
Non appena l’eroe fu alla distanza giusta, il basilisco si abbassò e cercò di afferrarlo con le zampe anteriori. Il semidio, tuttavia, sembrava aspettare solo quel momento: senza deviare dalla propria traiettoria, scagliò la lancia che, volando tra gli artigli della creatura, le si conficcò in gola, penetrando le bande di metallo con violenta precisione. L’impatto sollevò di nuovo la bestia sulle zampe posteriori mentre, in un goffo e scoordinato tentativo di mantenere l’equilibrio, prese a mulinare le braccia.
Achille non si lasciò sfuggire l’occasione: spiccò un salto sovraumano e si avventò sul collo del basilisco, proprio dove spuntava il manico della lancia, colpendolo con tutto il proprio slancio. Vide il metallo penetrare ancora più a fondo e, mentre la creatura perdeva anche quel briciolo di stabilità che le era rimasto, sentì la punta dell’arma cozzare contro qualcosa di rigido e in movimento. L’impatto di quella massa di ferro contro il suolo, aggiunta al peso dell’eroe, diede il colpo di grazia all’anima metallica del mostro che cedette di schianto spezzandosi a metà.
Il guerriero estrasse l’arma e uno strano liquido nero, denso e viscoso, cominciò a zampillare dalla ferita imbrattando tutto nel raggio di una dozzina di braccia.
Odisseo, fermo sulla porta della casa in fiamme, lo fissava sbalordito:
«Un solo colpo. Spero di non dovermi mai scontrare con te, Achille di Ftia. Inoltre si dice che tu ti fossi liberato della lancia di Efesto.»
«Mi credevi così pazzo da scagliarmi contro quel gigante con una normale lancia di bronzo?»
Il re di Itaca percepì il tono serio dell’amico e la risposta affermativa gli morì in gola.
Pochi passi e il guerriero recuperò anche lo scudo, poi, ancora tremante per la frenesia, aprì i palmi e prese a fissarli con feroce rassegnazione.
No! Destino di queste mani è bagnarsi nel sangue, quello dei nemici come delle persone che amo.

Gli occhi di ghiaccio risaltavano quieti dalla maschera di sangue nero che il basilisco aveva dipinto sul suo volto, la calma omicida che ne traspariva incuteva più timore del mito che da sempre circondava il nome di Achille: il più temibile guerriero della storia.
Il suo sguardo si perse in quello del compagno, acuto e furbo come sempre e i due non ebbero bisogno di parlare per comprendere l’uno le ragioni dell’altro. Odisseo poggiò la mano sulla spalla dell’amico e prese un respiro profondo:
«Il tuo dolore è il mio dolore, fratello. E non chiedere, certo che mi avrai al tuo fianco in quest’impresa: è una cosa che abbiamo cominciato insieme, insieme la finiremo.»
Si strinsero gli avambracci in segno d’intesa, poi Achille si voltò e cominciò a camminare verso il sole morente.
«Non tributi gli onori funebri alla tua famiglia? Sai che, senza obolo, Caronte non traghetterà mai le loro anime attraverso l’Acheronte.»
«Non voglio che lo faccia, dopo che avrò finito con Apollo andrò a riprendermele…»
«E sarà comodo che non si trovino nei domini di Ade, capisco.» Odisseo si morse la lingua per non averci pensato da solo.
Il biondo eroe di Ftia, come colto da una folgorazione, si fermò di colpo e, con aria interrogativa, si rivolse di nuovo all’amico:
«Come ha saputo del nostro inganno?»
«L’Oracolo di Delphi. Ha predetto che se il mai morto Pelide Achille, legittimo re dei Mirmidoni, fosse giunto incolume al solstizio d’estate, avrebbe distrutto il Sole dell’Arte. O qualcosa del genere. Si dice che Apollo abbia riso in un primo momento ma, lo sai, l’Oracolo di Delphi non sbaglia mai, ha dovuto credergli.»
«Con me ha sbagliato già una volta.» rispose Achille con un’espressione seria.
«Devi augurarti che non si sbagli questa volta!» ribatté Odisseo.
«Già. Quindi mancano solo ventuno giorni, poi avrò la mia vendetta.»
«Sempre che tu riesca a rimanere vivo tanto a lungo.»
L’eroe sorrise, pregustando il momento in cui la sua lancia si sarebbe infilata nel cuore del dio.
Si allontanarono a passo spedito dalla casa ancora in fiamme, il cui tetto finì di crollare in uno schianto, contornato dallo scoppiettio ininterrotto del rogo.
Nessuno dei due si voltò: continuarono a camminare, decisi a lasciarsi il passato alle spalle.
Gli eroi hanno bisogno di imprese da compiere e loro si erano appena imbarcati nella più pericolosa che il genere umano avesse mai conosciuto.
Vedremo come staranno le mie mani, immerse nel sangue di un Dio.

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venerdì 26 ottobre 2012

Labirinti nella mente

Racconto primo classificato alla 24 ore di Ottobre. Ha riscosso un ottimo consenso presso gli altri partecipanti, spero piacerà anche a voi.



Labirinti nella mente


Le gocce continuavano a cadere pesanti sul pavimento tiepido, mentre il loro suono sincopato si perdeva nell’aria di un ambiente che, a giudicare dall’eco, pareva senza dimensioni.
La pozzanghera guadagnava terreno, lenta ma costante, valicando tutte le scanalature tra le diverse piastrelle. Le ore la videro avvicinarsi sempre più al corpo inerme che giaceva accanto a lei: centimetro dopo centimetro l’acqua vinse anche gli ultimi sbarramenti e, in un impeto di capillarità, inzuppò il tessuto rosso della maglietta di cotone, proprio sopra le costole.
Il liquido era gelido e l’uomo, risvegliato dal senso di pericolo, si alzò in piedi di scatto. Alle gambe, tuttavia, non bastò quel mezzo istante per scrollarsi di dosso il torpore accumulato in ore di immobilità. Non aveva nemmeno finito di alzarsi che perse l’equilibrio e cadde di nuovo a terra di schianto. Una calda colata viscosa gli straripò dalla tempia e, in pochi istanti, il sapore metallico del sangue gli si insinuò tra le labbra. Lo sentiva infiltrarsi fino in cima alle gengive e nello spazio tra i denti.
D’istinto si portò una mano alla fronte, umida e scivolosa, per tamponare la ferita.
Se quella stronza ha lasciato ancora le ante dei pensili aperte io la ammazzo.
Aver formulato un pensiero di senso compiuto, per quanto istintivo, gli fece recuperare un briciolo di lucidità e si rese conto che non vedeva nulla. Aprì di più gli occhi ma ancora non riusciva a scorgere null’altro che spicchi della pesante cortina buia che lo circondava.
Maledizione, mi fa male tutto.
In una smorfia, raccolse la saliva sulla lingua e la usò per sciacquarsi la bocca dal sangue prima di sputarla sul pavimento.
Ma, dove diavolo sono?
Provò di nuovo a guardarsi attorno, ma l’oscurità era totale: il respiro gli si fece subito corto mentre l’immaginazione cominciava a elaborare il silenzio, popolandolo di pericoli irrazionali. Si sentiva come se mille occhi lo fissassero, mentre decine di lingue ripassavano fameliche i profili delle zanne insanguinate. Si vide spacciato.
Preso dal panico, cominciò a correre. Fuggiva dal nulla e verso il nulla, le braccia tese in avanti a scandagliare le poche spanne di cui era composto il suo mondo.

“Registrazione AX247C.
L’intensità del campo elettrico neurale limbico del soggetto 31B è al di fuori dalla scala di misurazione.
Si presenta la necessità di ricalibrare gli strumenti. L’unico dato rilevabile è il fatto che l’istinto di sopravvivenza ha incrementato l’attività cerebrale istintuale di un fattore quattro. Un ottimo inizio.
Questo mi permetterà di avvicinarmi ancora di più all’architettura neurale ancestrale: ormai i passi rimasti da fare sono pochi, il professor Nuti dovrà essere soddisfatto stavolta. Sperimentare su soggetti in stato di privazione multisensoriale è stata un’idea mia, mi dovrà riconoscere il giusto merito. Lo dovrà fare.”

«Ehi, qualcuno mi sente?» urlò all’oscurità: «tiratemi fuori di qui!»
Tese l’orecchio per cercare di percepire un segnale qualsiasi. Il buio, però, non rispose.
Dannazione, quanto ci mettono ad abituarsi al buio questi maledetti occhi?
Era fuggito per diversi minuti senza incontrare nulla prima di fermarsi: ora si sentiva, se possibile, addirittura più perso di prima.
Prese a esplorare l’ambiente circostante a tentoni, muovendosi prima in una direzione, poi in un’altra, ma, fatta eccezione per il pavimento di pietra ruvida, quell’ambiente pareva essere composto solo di tenebre. Camminò trascinando i piedi per un’altra dozzina di passi: l’idea di staccarli dal pavimento anche per un solo secondo gli era divenuta insopportabile. Intanto, l’acquoso salmodiare delle gocce gli percuoteva i timpani, espandendo l’unico senso su cui poteva ancora fare affidamento.
D’un tratto, tra un fruscio e l’altro del tessuto dei pantaloni, gli parve di sentire qualcosa. Un rumore tenue che veniva dalla sua destra: somigliava a un respiro controllato, come se qualcuno avesse voluto prendere fiato ma senza farsi sentire.
«Chi c’è lì?» la voce gli tremava: «Guarda che sono armato, non ho paura. Fatti riconoscere o faccio fuoco!»
Provò a dire quelle parole con risolutezza, facendo appello a tutto il coraggio che non aveva mai avuto, ma la voce carica di terrore risuonò nelle tenebre pietosa come un pianto.
Passò in silenzio un tempo che gli parve interminabile, stava quasi per convincersi che quel suono fosse stato il frutto della sua immaginazione quando, stavolta dalla sua sinistra, lo sentì di nuovo, molto più vicino.
«Guarda che lo faccio!» urlò perpetrando il bluff.
Tese le mani davanti a sé, cercando con i palmi qualche riferimento: un muro, un ostacolo, uno spiffero d’aria. Qualsiasi cosa sarebbe andata bene. Gli occhi erano spalancati con forza, come se aprendoli di più sarebbe stato in grado di scorgere qualcosa in quell’oscurità opprimente.

“Registrazione AX355C.
Un picco di 1,31 MeV. Ho eseguito la diagnostica e il dato è stato confermato dal sistema. È ancora un dato singolo, un’aberrazione, ma dimostra che la strada seguita è quella giusta. Il soggetto 87C è deceduto durante il picco, le analisi confermano la presenza di residui di sinaptobrevina e SNAP-25 trecento volte superiori alla norma, localizzate tra la quarta e la settima sezione citoarchitettonica della corteccia insulare.
Finalmente le mie teorie si sono rivelate valide, il frutto di tutte le mie fatiche è pronto per essere colto.
Ancora qualche giorno e tutti dovranno riconoscermi come il più grande architetto neurale vivente.
Alla faccia di Nuti, idiota, in culo a lui e a tutti quelli che non hanno mai creduto in me. Ma ora lo vedrete, ora crederete. Sono sicuro di riuscire a oltrepassare l’architettura neurale limbica, scavare più a fondo fino a raggiungere quella ancestrale: l’unica di cui nessuno era mai nemmeno riuscito a provare l’esistenza. Nessuno tranne me. Sono un genio, un genio, uno stramaledetto genio.”

Il respiro attorno a lui era svanito di nuovo, lasciandolo solo con la consapevolezza di un nemico invisibile che giocava con la sua vita.
Sentì la pelle accartocciarsi in un brivido di paura, i peli si rizzarono sugli avambracci mentre ancora cercava di guardarsi attorno per scorgere qualcosa. Le gambe larghe e ben piantate a terra, la testa lievemente abbassata con il mento a proteggere la gola, i pugni serrati. Tutto in lui era pronto ad aggredire chiunque si fosse avvicinato.
Il cuore correva all’impazzata, quasi come la fantasia che, d’istante in istante, cambiava forma alla minaccia invisibile, in un’escalation di artigli, zanne e occhi iniettati di sangue che sembrava inarrestabile.
Una scarica di adrenalina gli scosse le membra quando si sentì sfiorare la nuca. Gli scappò un grido e, voltandosi di scatto, prese a mulinare le braccia davanti a sé, ringhiando e piangendo al tempo stesso.
Continuò per un tempo indefinito, ma le sue mani non incontrarono nulla. Tirò anche qualche calcio scoordinato.
Il terrore dell’ignoto lo spronava a continuare, sapeva che la creatura aspettava solo che lui si fermasse per agguantarlo e trascinarlo chissà dove.
La fatica cominciò a farsi strada tra le fibre muscolari: le braccia si fecero sempre più pesanti, i polmoni bruciavano, i denti così stretti che sembrava dovessero spezzarsi da un momento all’altro. Provò a resistere ma il dolore e la stanchezza, amplificati dal buio, presero il sopravvento.
Frustrato dall’impotenza dei fendenti con cui spazzava l’area attorno a sé, si lasciò andare, soccombendo sotto i colpi incessanti della propria disperazione.
«Uccidimi, che cosa aspetti?» disse con un filo di voce prima di inginocchiarsi a terra abbassando il capo.

“Registrazione AX512C.
La privazione sensoriale sta dando buoni risultati, i dati delle registrazioni precedenti lo dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio. Tutti i soggetti stanno reagendo in modo positivo alle sperimentazioni. Ormai sono riuscito a schematizzare le principali reazioni del sistema limbico. Fuga e lotta sono già state indicizzate. Devo solo raccogliere i dati sull’immobilità e il quadro sarà completo. Le citoarchitetture di Reil possono essere stimolate da profonde e inconsce reazioni emotive, è una grande scoperta. Il dubbio che mi rimane, però, è sempre lo stesso: e se il soggetto fosse consapevole di trovarsi in un esperimento? Cosa cambierebbe? La razionalità potrebbe prendere il sopravvento sull’istinto? Solo i prossimi test ce lo diranno, ma ho paura di questo spettro all’orizzonte che si fa sempre più vicino.”

Il silenzio era tornato a essere il suo unico compagno, lo ascoltava con rassegnato interesse da minuti, forse ore, non sapeva dirlo. La tempia gli mandava delle fitte regolari, quei picchi di dolore gli sottraevano anche la speranza irrazionale che fosse tutto un brutto sogno: era reale, terribile e reale.
Ritrovato un barlume di calma, l’istinto di sopravvivenza lasciò qualche sottile spiraglio alla ragione che, impietosa, gli riversò nella mente un’infinità di dubbi e domande.
Come diavolo sono finito qui? Dov’è “qui”? Mi ci avrà rinchiuso qualcuno? Cosa può volere da me?
D’un tratto, si fece strada in lui la consapevolezza di aver già visto quella scena, decine e decine di volte. Riconobbe lo schema.
Una risata isterica si aprì a forza la strada attraverso i denti stretti:
«Mi senti? Lo so cosa stai facendo, ma io non ci casco! Questo metodo l’ho inventato io, l’ho codificato io, so come funziona.»
L’eco del ghigno si spense, perso nell’infinito di quelle tenebre che gli soffocavano l’anima.
«Vogliono farmi crollare, non devo permetterglielo, non c’è niente nel buio. È tutto frutto della mia mente. Lo so, l’ho studiato.»
Prese a sussurrare quelle parole come un mantra: “lo so, l’ho studiato, lo so, l’ho studiato.”
Invece di calmarlo, il suono di ogni sillaba demoliva un mattone del sottile muro che ancora gli relegava nell’inconscio ansie e paure ancestrali.
Ogni suono aumentava la pressione dall’interno. La morsa dell’angoscia gli stringeva implacabile i polmoni. L’artiglio gelido della paura gli afferrò la gola.
«Fammi uscire!»
L’urlo disperato non riuscì a scalfire il buio, finì solo per distruggere i pochi stralci di volontà sopravvissuti al fallimentare tentativo di autocondizionamento.
Cadde a terra e si rannicchiò in posizione fetale, mentre la disperazione gli rigava il viso in lacrime salate.

“Registrazione AX897C.
Il sistema limbico, in un caso riconosciuto dall’istintività come pericoloso, prende il sopravvento sulla razionalità, a prescindere dalla quantità e dalla qualità di informazioni possedute dal soggetto sulla situazione in atto.
Persino nel caso in cui ci si trovi d’innanzi a una fuga, in mancanza di elementi che la rendano utile, questa lascerà inevitabilmente il posto all’unica altra reazione processabile dall’istinto: la lotta. È solo dopo aver reso inutile anche questa soluzione che si potrà arrivare alla mappatura dell’architettura ancestrale che, secondo la teoria della psicologia universale di Kerimov, è uguale per tutti gli esseri umani. Basterà aumentare il voltaggio della strumentazione per raggiungere una maggiore profondità e sottrarre alla rilevazione gli schemi del sistema limbico.”

L’uomo si abbassò le maniche fino ai polsi e si stropicciò gli occhi sollevando gli occhiali con i pugni. Si lasciò andare sulla sedia e stoppò il piccolo registratore portatile: erano tre giorni che ascoltava quelle cassette, aveva bisogno di una pausa.
Pollice e indice della mano destra si chiusero sulla leva che controllava la videocamera mobile e la spostarono avanti. Sullo schermo di destra apparve l’immagine di Golan, ancora rannicchiato a terra singhiozzante, dipinto nelle tinte verdognole del filtro infrarosso.
Sul viso dell’uomo alla console si aprì un ghigno sadico mentre, con la mano sinistra, estraeva una tastiera dal piccolo carrello a scomparsa sotto la scrivania. Pochi rapidi tocchi e, sul monitor centrale, apparvero quattro grafici cartesiani ancora bianchi.
Sullo schermo di sinistra, nel frattempo, scritte verdi su sfondo nero aggiornavano l’uomo sull’avanzamento dei preparativi per la scansione.
Inizializzazione strumenti: 27% ;
Bobine di Tesla: attive ;
«Sii contento, Golan, l’ultimo tassello del puzzle sarai proprio tu. Che onore.» disse l’individuo al monitor su cui lo scienziato rantolava impaurito.
Mappatori Elettromagnetici: attivi ;
Sonde Triassiali: attive ;
Si alzò dalla sedia e si avviò verso l’appendiabiti: cominciava a sentire freddo. Si infilò il lungo camice bianco e si strinse nelle spalle, poi, con un gesto a cui era fin troppo abituato, si sfilò di tasca il tesserino e se lo appuntò sul bavero. Sotto il semicerchio rosa diviso da un triangolo grigio, campeggiava la scritta “Professor Elio Nuti. CEO. Mindrill Industries”.
Inizializzazione strumenti: 48% ;
Scanner a Banda Larga: attivi ;
«Ma quanto ci mette questo trabiccolo a prepararsi?»
Il professore prese la tazza di tè dalla scrivania e si mise a soffiare sulla superficie, poi allungò ancora la mano e fece ripartire il piccolo registratore a cassette.
Registrazione AX909C.
Le mie ricerche sono finalmente ultimate. Ma sono a un punto morto. Tutti i test effettuati per ricavare l’architettura ancestrale hanno avuto come effetto la morte del soggetto esaminato. Non posso provare su un essere umano, il campo elettromagnetico generato dagli strumenti è troppo intenso. Maledizione, eppure sono così vicino, mi basterebbe un volontario. Ma che dico? No! Bisogna aspettare, trovare il modo di rendere la rilevazione sicura. Non posso sacrificare la vita di qualcun altro, nemmeno per il bene della scienza.”
«Parole sante, dottore, parole sante.» sogghignò il professore.
Collegamento rete neurale blocchi A27 – D43: attivo ;
Ricevitori Alfa-Risonanti: attivi ;
Lo sguardo gli cadde di nuovo sul monitor su cui era ritratto Golan, un inizio di senso di colpa cominciò a rodergli in petto, ma lo ricacciò da dove era uscito.
«È tutta colpa tua, te la sei voluta! D’altronde, che ti aspettavi? Che stanziassi più di cento milioni per la costruzione del tuo fantomatico “Labirinto” e poi mi fermassi a causa dei tuoi “problemi etici”? Hai fatto male i tuoi calcoli: questa ricerca è mia. Te la sei cercata.»
Inizializzazione strumenti... completata.
Premere Invio per eseguire...
Il professor Nuti trattenne il respiro mentre la mano si avvicinava alla tastiera, il fatto che stesse rubando quella ricerca non lo rendeva meno emozionato: era pur sempre uno scienziato, il piacere della scoperta faceva parte di lui. Chiuse gli occhi e, di scatto, l’indice si appoggiò sulla tastiera.
Riaprì lento le palpebre e guardò lo schermo di sinistra.
Elaborazione dati... Attendere prego...
«Dai, muoviti, ammasso di latta.»
Dati elaborati con successo... Salvataggio in corso.

« …In questo giorno di gioia, il mio pensiero va al Dottor Henry Golan, un’inesauribile fonte di ispirazione la cui dedizione al lavoro e la mente brillante mi mancano ogni giorno. Vorrei che alla fine del mio discorso, in cuor vostro, vi prendeste qualche istante per rivolgere a lui il vostro pensiero e un sentito ringraziamento. Era un uomo speciale che ha dato tutto per questo giorno, senza il suo sacrificio non sarei mai riuscito a completare la ricerca che, ve lo prometto, rivoluzionerà il mondo. Finalmente avremo la chiave per tutto il potenziale inespresso della mente umana: quozienti intellettivi a quattro cifre, la capacità di comunicare telepaticamente, di controllare la materia, di plasmare l’universo a nostro piacimento. Tutte queste cose che, fino a ieri, appartenevano solo alla fervida immaginazione di registi e disegnatori, da oggi potranno diventare realtà. È quindi con immensa gioia ma anche con infinita tristezza che vi presento la Teoria di Nuti-Golan sull’Architettura Ancestrale.»
La platea esplose in un boato assordante, l’applauso durò svariati minuti, molti si alzarono addirittura in piedi, apparivano tutti entusiasti.
Dall’alto del palco, Elio Nuti osservava quei luminari delle neuroscienze che lo fissavano sfoggiando sorrisi e cenni di assenso, sui loro volti riusciva a scorgere, ben nascosta dalla finta ammirazione, tutta l’invidia che rodeva le loro anime: era tutto quello che aveva sempre desiderato. Un ghigno soddisfatto gli si dipinse sul volto.
I miei più sentiti ringraziamenti, Golan.

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venerdì 19 ottobre 2012

NOVITÀ eBook

Ciao a tutti, oggi ho deciso che i miei racconti meritano sicuramente più di una formattazione "tradizionale" da blog. Quindi, a breve, comincerò a editarli e impaginarli come si deve e, sempre sul blog o sulla pagina facebook, si potranno trovare i link per scaricarli in PDF o, eventualmente, in altri formati più interessanti per eBook reader.
Quindi, visto che l'attività di scrittore mi sta dando qualche soddisfazione, è giunto il momento di fare un ulteriore passetto in avanti e cominciare a presentare i miei scritti in una forma che sia più gradevole e interessante.
Adesso mi metto a imparare a usare i programmi di impaginazione e a breve saranno disponibili i primi test.
Stay tuned.
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sabato 13 ottobre 2012

666 respiri




666 Respiri


“Forza Arriette, un ultimo respiro… spinga!”
La donna ormai andava avanti per inerzia, non sentiva più nulla, nemmeno il dolore.
Vide l’ostetrica alzare un corpicino e il suono sincopato di un pianto si fece strada tra la cortina di ovatta che pareva circondarle la testa.

-Lachesi, tanto filo per lui, sì?
-Nulla più di quanto gli spetti!
-Silenzio! 59…

“Signora Meyers, suo figlio ha avuto una lieve ipossiemia, abbiamo dovuto dargli l’ossigeno ma, non si preoccupi, è una cosa piuttosto comune nei prematuri.”
“Ipo…?” Arriette era ancora un po’stordita e la paura le risucchiava ogni goccia di lucidità residua.
“Ipossiemia!” il marito l’apostrofò stizzito, “significa che ha poco ossigeno nel sangue, probabilmente respira male.”
“Respira poco” lo corresse la dottoressa.
“Posso vederlo?” la voce della donna tremava.
“Purtroppo no, ma stia tranquilla, per ora lo teniamo in osservazione e, se il ritmo respiratorio dovesse normalizzarsi, potrà riabbracciare subito il suo bambino”.
“Si chiama Daniel” disse la donna con gli occhi pieni di lacrime e speranza.

-Lachesi, ti prego.
-666 respiri, così è scrit…
Gli occhi della Moira si tinsero di nero mentre il suo corpo fremeva, attraversato dall’essenza stessa dell’universo.
-Aspetta! Forse c’è ancora speranza Cloto, cosa dici sempre?
-Che la gioia con la gioia si paga, sì…
-209…

“RR ancora a 9, devi respirare se vuoi vivere, piccolo.”
La dottoressa Parker fissò preoccupata il petto del bambino per qualche secondo prima di passare alla successiva incubatrice.

-238…
-Smettila!
-240…

“Signori Meyers?”
Una sorridente suora mingherlina si era appena affacciata alla porta della camera.
“Sì?”
Arriette stava meglio, la paura le aveva finalmente allentato la presa sullo stomaco.
“I bambini di oncologia stanno facendo il giro per il tradizionale dolcetto o scherzetto, sapete, molti sono terminali e questo sarà il loro ultimo Halloween. Sarebbe carino dar loro qualcosa, basta davvero poco per farli felici, credetemi.”
“Certo” rispose sorridendo Arriette, “mio marito farà subito un salto giù a comprare qualcosa, vero caro?”
Il Dr. Meyers annuì a denti stretti, odiava il modo in cui la moglie soleva incastrarlo.
“Dio vi benedica, possa la gioia che donerete tornare su di voi, moltiplicata”.
Sparì con la stessa gioiosa irruenza con cui era apparsa.

-Quindi se glieli portasse…
-Lo salverebbe? Sì.
-368…

“Caramelle, cioccolatini, cose del genere”
“Quali desidera signore?”
La commessa era bruttina, non la degnò di uno sguardo.
“Cosa vuole che me ne importi? Mi dia quelle che costano meno!” si trattenne a stento dal finire la frase ad alta voce, “tanto quegli stronzetti nemmeno le possono mangiare, potessero morire tutti!”
“Sono 3,95.”

-Lachesi, ce la farà?
-Il tempo non gli manca.
-431…

Le porte dell’ascensore si riaprirono, solo un paio di svolte lo separavano da quella palla al piede della sua consorte. Non fosse stato per la gravidanza…
Sentì vibrare il telefono, un messaggio: “Amore mio, quando ti liberi di tua moglie? Ho voglia di sentirti ancora dentro di me.”
Sorrise sentendo il suo sesso inturgidirsi, poi indugiò sul rigonfiamento dei pantaloni: “Tu sì che sapresti cosa fartene, troietta ninfomane.”
Non poteva certo tornare da Arriette in quelle condizioni, decise quindi di fermarsi in sala d’attesa a far calmare l’eccitazione.

-No, noooo.
-Beh, peccato.
-524…

“Toc toc” il vociare indistinto di un gruppetto di bambini accompagnò la bussata.
“Avanti”
Una ciurma di pirati arrembò la stanza, nelle mani piccole lanterne di zucca e sacchettini di dolci non ancora pieni.
“Dolcetto o scherzettoooo?” cantilenarono in coro seguendo quello che era indiscutibilmente il loro capitano.
“Bambini, mi dispiace, ho mandato mio marito a prendervi qualcosa ma non è ancora tornato, non ho nulla da offrirvi.”

-Vi prego…
-Con un padre così, Cloto, il suo destino sarebbe comunque stato segnato. Poi cosa dici sempre?
-Sì… ma…
-613…

Dalla nursery risuonò impietoso l’allarme di un respiratore.

Ad Arriette vennero le lacrime agli occhi vedendo la delusione dipinta sui loro volti, sentì un nodo allo stomaco mentre il capitano, incredulo, trovava il coraggio per ripetere “dolcetto o…”

-Non farlo, sorella…
Lachesi osservò imperturbabile Atropo aprire le forbici ghignando divertita.
-664, 665… Scherzetto!
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Contrappasso



Contrappasso – la X non indica mai il punto dove sparare.


- Merda, non ce la faremo.
Il cuore gli pompava acido nelle gambe stremate e la schiena era un giunco sul punto di spezzarsi: era quasi un’ora che scappava tra gli edifici abbandonati di El Rio con Samir sulle spalle. La consapevolezza che non avrebbe potuto continuare fino all’alba gli calò sulle ginocchia, pesante come un macigno.
Si guardò rapidamente attorno prima di imboccare un piccolo pontile che spariva tra le palafitte.
- Qui saremo al sicuro. Almeno per un po’.
Il piccolo emporio in cui avevano trovato rifugio li flagellava con il lezzo di muffa e vettovaglie rancide, l’aria collosa gli si insinuava nelle narici, facendogli sentire il sapore di quella puzza in fondo al palato.
Almeno coprirà l’odore di sangue.
Geko, stremato, rovinò a terra. Stessa sorte toccò all’amico sulle sue spalle che, incapace di reagire, urtò a peso morto uno spigolo con la gamba malmessa. Samir si morse il bavero della giacca e pigiò le mani sulla ferita nel tentativo di arginare il dolore, ma le fitte si susseguivano troppo rapide e, dopo pochi secondi, gli scappò un gemito.
- Smettila di lamentarti, Samir. Ci farai scoprire.
- Merda, Geko, fa un male del diavolo.
- Lo so, ma devi stringere i denti se vogliamo sopravvivere.
Si scostò i lunghi capelli biondi dalla fronte e li bloccò indietro con il cappello. In un disperato tentativo di far smettere i conati di vomito, si sollevò la bandana fin sopra il naso prima di dirigersi verso la finestra: incredibile come un lembo di stoffa che accumulava sporcizia da mesi potesse sembrargli tanto profumato, inspirò compiaciuto l’acre odore del proprio sudore, a pieni polmoni. Attraverso il piccolo spiraglio aperto nella tenda scura, la tenue luce delle stelle non rivelava nulla, sembrava tutto tranquillo. Solo lo scroscio dell’acqua, unito al cigolio delle porte del saloon mosse dal vento, turbava il silenzio in cui erano immerse le rovine dell’antico borgo fluviale.
D’un tratto, con la coda dell’occhio, gli parve di scorgere una silhouette nera muoversi furtiva sui tetti degli edifici di fronte.
Samir si lasciò sfuggire un altro gemito.
- Shhh, sono arrivati, non fiatare. Sei un Cacciatore, per Dio, tira fuori le palle.
Ma la ferita del mulatto era troppo profonda, il pavimento era già macchiato del suo sangue e lui continuò a rantolare.
Speriamo che il rumore dell’acqua basti a coprirlo.
Geko riprese a spiare fuori dalla finestra, il numero di quelle creature maledette era già salito a quasi una dozzina, si aggiravano sulle case fiutando l’aria ma, per fortuna, pareva che nessuna fosse sulla strada giusta per trovarli. Controllò l’orologio da taschino: mancava poco meno di mezz’ora all’alba. Forse avevano una possibilità.
Samir gemette ancora e, attraverso il tendaggio, Geko vide un paio di figure girarsi di scatto verso di loro, come a tendere l’orecchio per ascoltare meglio.
- Merda, ci hai fatti scoprire.
Si guardò attorno alla ricerca di una soluzione, di una via di fuga, ma la gamba del suo compagno era ridotta male e perdeva troppo sangue, in due non sarebbero andati lontano. Controllò il cinturone: i proiettili allo zolfo erano finiti, glien’erano rimasti solo tre di legno e sei d’argento con la punta incisa. Non sarebbero bastati.
Guardò di nuovo fuori dalla finestra: le creature stavano cominciando ad avvicinarsi guardinghe all’emporio, passando silenziosamente di tetto in tetto. Un paio di minuti al massimo e sarebbero state su di loro. A quel punto, essere il miglior pistolero sulla faccia della Terra non sarebbe servito a molto.
Geko prese il coraggio a due mani, sapeva quel che andava fatto. Saltò rapido a cavalcioni dell’amico ed estrasse il coltello.
- Mi dispiace Samir, non c’è altro modo. Tu non hai possibilità, e io non posso lasciare che ti prendano vivo e ti trasformino in uno di loro.
Gli appoggiò la punta della lama nel centro del petto e si preparò ad affondare col proprio peso.
- Geko, no, ho ancora tre proiettili,- replicò il ragazzo, cercando con la mano la fondina della sua inseparabile colt custom,- ti prego, combattiamo. Manca poco all’alba, possiamo farcela.
- Non rendermelo ancora più difficile.
- No, ti imploro, ti scongiuro, non farlo, sei il mio migliore amico!
Singhiozzò disperato in un ultimo, estremo tentativo di salvarsi la vita.
- Perdonami.
Con una mano gli tappò la bocca e con l’altra premette sull’impugnatura. Lo sterno tentò una vana resistenza prima di spezzarsi e permettere alla lama di farsi strada tra le carni.
L’urlo si sentì appena, smorzato dalla pressione della mano sulle labbra. Geko estrasse il coltello e lo ruotò di novanta gradi, poi affondò di nuovo.
- Scusami, ma non posso correre rischi. Lo sai, tutto il tuo cuore dev’essere inservibile.
Si alzò e tolse la mano dalla bocca di Samir, che cominciò a gridare. Ci avrebbe messo circa un minuto a morire, giusto il tempo di attirare quelle belve su di sé e dare a lui il tempo di fuggire.
Geko era quasi a una cinquantina di metri dal fiume quando sentì il rumore delle assi di legno che si infrangevano. Continuò a fuggire senza voltarsi, mentre il cielo all’orizzonte cominciava ad assumere le tinte azzurre dell’aurora.
Addio, amico mio, la tua morte non resterà impunita.


1 anno dopo

Da quasi un’ora gli ultimi raggi di sole erano stati inghiottiti dall’orizzonte, il vento gelido stava finendo di strappare al terreno quei pochi stralci di tepore che ancora riusciva a emanare.
Geko non smetteva mai di sorprendersi per quanto quelle lande desolate sapessero cambiare volto in poche ore: infuocate di giorno, ghiacciate di notte. I due volti dell’Inferno.
Un rumore di zoccoli al galoppo risuonò in lontananza, non ebbe nemmeno bisogno di voltarsi a controllare: nessuno capitava per caso in un posto del genere.
L’animale si fermò sbuffando a una dozzina di metri da lui, il cavaliere rimase fermo in silenzio.
- Sei in anticipo.
Geko gettò la pala sul terreno e, con un piccolo balzo, saltò fuori dalla buca che stava scavando.
Batté le mani sui jeans per disperdere la polvere e si sfilò la bandana dalla fronte. I lunghi capelli biondi, intrisi di terra e sudore, gli caddero sulla nuca, li spostò per asciugarsi il sudore dal collo.
- Ho ricevuto il tuo messaggio,- disse indicando la colt custom accanto alla pala, - ma non ti aspettavo tanto presto. Come puoi vedere, non ho ancora finito.
Samir sollevò lievemente la tesa del cappello, permettendo alla tenue luce della luna di illuminargli il volto olivastro. Smontò dal mustang e il vento gli scostò il lungo cappotto consunto, scoprendo la sciabola in acciaio intarsiato d’argento che gli pendeva dal fianco.
- Perché stai scavando due buche?
- Sono un tipo previdente, non si sa mai come vanno a finire queste cose.
Si scrutarono a lungo accarezzando dolcemente le armi: aspettavano di vedere negli occhi dell’altro quel lampo che tutti i pistoleri imparano presto a riconoscere.
Nessuno dei due, tuttavia, sembrava avere fretta di farla finita, così Geko riprese la pala e saltò di nuovo nella buca.
- Pensavo serbassi più rancore, amico mio, morirò senza averti mai visto in preda all’ira.
- Una volta mi hai visto supplicare, fattelo bastare.
Sorrisero entrambi amaramente: in quell’ultimo anno, rabbia e senso di colpa non avevano fatto che crescere e ora si stavano pericolosamente incontrando, come un fiammifero e una santabarbara. La tensione nell’aria era palpabile.
Samir fece per infilare la mano nella tasca interna del cappotto, Geko lo vide con la coda dell’occhio e, prima ancora che la mano dell’amico raggiungesse il bavero, aveva già la pistola puntata verso di lui con il cane alzato.
- Mi ero quasi dimenticato di quanto fossi dannatamente veloce ma, rilassati, sto solo prendendo…- lentamente continuò il movimento estraendo una piccola armonica, -…questa.
Lunghe note malinconiche riempirono l’aria della sera, mentre la luna risplendeva opaca sull’enorme distesa di terra assetata.
Geko, rassegnato, si guardava spendere le sue ultime ore con l’amico, perso nell’amarezza consapevole di un silenzioso rimpianto.

Era quasi mezzanotte quando, finalmente, le due buche furono ultimate.
Sempre con la mano pronta a scattare verso la pistola, Geko si sedette su una pietra e fissò calmo l’amico.
- Vuoi farlo subito?
Samir smise di suonare. Si battè due volte l’armonica sulla coscia e piccole gocce di saliva punteggiarono il tessuto asciutto dei pantaloni
- Prima vorrei farti una domanda: ti senti in colpa?
- Sai bene che non avevo altra scelta! E ora, vedendoti ridotto così, il mio unico rimpianto è di non aver spinto la lama più a fondo.
- Quindi te ne sei accorto?
Geko indossò il poncho, si strofinò le mani, e tese i palmi verso il piccolo fuoco che crepitava tra loro: non voleva che il freddo della notte gli intorpidisse il corpo prima dello scontro.
- Sì, appena sei smontato da cavallo.
- Che cosa mi ha tradito?
- La spada: loro non usano pistole né fucili, c’è lo zolfo nella polvere da sparo. E poi non avresti mai abbandonato la tua colt se non per necessità.
- Sono davvero impressionato. Anche in preda all’emozione del nostro incontro, sei rimasto sempre il solito lucido figlio di puttana a cui non sfugge nulla. Sei sempre il migliore, Geko, mi fa molto piacere.
- Non si sopravvive a tanti anni di Caccia senza usare il cervello. Ma, prima di morire, toglimi una curiosità: come hai fatto a cavartela quella notte?
- All’inizio nemmeno io riuscivo a spiegarmelo, ma, sai, la mia nuova condizione mi ha donato anche una rinnovata coscienza di me: ho scoperto che il mio cuore è un po’spostato rispetto al centro. Curioso, vero?
Il mulatto si alzò in piedi e si slacciò la camicia, mostrando il petto all’amico.
- Proprio qui.- continuò puntando il dito qualche centimetro più a destra della grossa cicatrice a forma di X, - a proposito, ti piace il segno che mi hai lasciato? Tutti i giorni mi ricorda che, per salvarsi la pelle, persino gli amici più cari ti mettono una croce sopra.
Rise amaramente.
- Senti, Samir, se sei venuto per avere la tua vendetta, beh, facciamola finita subito. Io sono pronto.

I due si fronteggiavano da una decina di passi di distanza, immobili nella notte, mentre il focolare faceva danzare senza sosta le loro ombre sul terriccio polveroso. A ogni crepitio, i nervi si facevano sempre più a fior di pelle: ognuna di quelle microscopiche esplosioni faceva scattare impercettibilmente le mani verso le armi.
Fu Samir a rompere gli indugi. Scattò in avanti estraendo la sciabola e caricò in linea retta il suo ex-amico, tenendo il focolare tra loro per ostacolargli la vista.
Geko vide il lampo negli occhi del suo avversario e la sua mano ripeté fulminea il gesto che, negli ultimi dieci anni, le era diventato tanto familiare: in una frazione di secondo estrasse la pistola e fece fuoco.
La punta della spada si alzò in un riflesso sovrannaturale e la pallottola andò a impattare contro il filo della lama. Il rumore dell’argento contro l’argento risuonò acuto mentre il proiettile inciso si disintegrava in mille schegge. Samir le sentì investirgli il viso e il suo urlo di dolore si perse nell’eco del suono metallico.
I frammenti gli avevano tuttavia inferto solo ferite superficiali, non sufficienti ad arrestare il suo slancio. Coprì con un balzo la distanza che li separava e la lama scintillò mentre il fendente scendeva in diagonale sul pistolero. Geko lo vide che era già molto, troppo vicino. Scartò di lato e sparò ancora. Sentì il colpo andare a segno mentre la spada si apriva un varco attraverso il poncho e il cinturone raggiungendo le carni. Il biondo ruzzolò a terra imbrattando la polvere di sangue, fece una capriola e si mise in ginocchio con la pistola puntata contro le tenebre. Di Samir nessuna traccia. Strappò quel che rimaneva del poncho e gettò a terra la cintura, poi arretrò cauto verso il fuoco guardandosi attorno.

Il mulatto, nascosto nell’oscurità, cercava di rimanere concentrato, la pallottola d’argento si era disintegrata nel suo braccio sinistro e, a ogni movimento, quelle miriadi di frammenti gli procuravano un’infinità di fitte lancinanti, bruciavano da impazzire.
La sua lucida determinazione lo spinse a fare quello che andava fatto: si puntò la lama sotto la fine della clavicola, appoggiò l’elsa a terra e si lasciò cadere. Il filo d’argento della sciabola penetrò le carni come fossero burro e andò a infilarsi tra la scapola e l’omero. Uno strattone deciso verso il basso e il braccio cadde a terra, staccato dal resto del corpo.
I vantaggi di non avere un cuore che batte, non si può morire dissanguati.
Riprese in mano l’arma e posò lo sguardo su Geko che, inginocchiato accanto al focolare, si guardava attorno nervoso.
Perfetto, mi sta dando le spalle.
Samir si mosse furtivo verso la zona illuminata, sapeva che quella sarebbe stata la sua ultima chance: ancora una, massimo due pallottole e sarebbe caduto. Non poteva fallire.
Arrivato al limitare della luce, spiccò un salto, voleva arrivare addosso a Geko dall’alto. Tuttavia, i sensi del pistolero, acuiti dal pericolo, intuirono lo spostamento d’aria. Si voltò fulmineo e sparò altri due colpi che solcarono l’aria senza impattare contro alcunché.
Il mulatto gli piombò addosso menando un altro fendente che squarciò il petto dell’umano lungo l’altra diagonale.
Così ora anche tu avrai la tua X.
Entrambi finirono a terra avvinghiati e, nel tempo di un istante, i loro sguardi si incrociarono. La spada si fece strada nell’addome di Geko, che esplose gli ultimi due colpi a bruciapelo nel petto di Samir, appena più a destra della cicatrice.
- Due buche, odio avere sempre ragione. Sai, amico mio, credo che la morte sia un piccolo prezzo da pagare per quello che ti ho fatto. Perdonami.
Dagli occhi dell’umano stillò una lacrima.
Samir si lasciò andare su di lui a peso morto e, appoggiandogli la testa nell’incavo del collo, gli sussurrò all’orecchio:
- Sono contento che la pensi così, amico mio. Mi hai liberato dalla mia dannazione eterna, ma sono un uomo di parola, mantengo sempre le mie promesse. Con questo io ti perdono.
E gli affondò le zanne nella gola, rigurgitandogli in circolo tutto il sangue che poté, prima di perdere i sensi tra le sue braccia.

- Maledetto bastardo. Mi hai contagiato!
La rabbia aveva donato nuove energie al corpo martoriato di Geko che, scrollatosi di dosso il suo nemico, strisciò verso il fuoco. Afferrò il cinturone e caricò la pistola con un proiettile d’argento. Senza esitare se la puntò al centro del petto.
Devo far presto.
Fece per premere il grilletto, ma una strana forza si impossessò di lui: più cercava di spararsi, più il suo dito non riusciva a compiere quel semplice gesto a lui così familiare: era come se il suo stesso corpo stesse rifiutando di togliersi la vita, obbedendo a un ordine dato da chissà chi.
Da dietro le sue spalle sentì provenire la voce gorgogliante di Samir:
- Non puoi ucciderti, Geko, in nessun modo: è il sangue, non te lo permette. Amplifica tutto: riflessi, forza, velocità e, ovviamente, l’istinto di sopravvivenza. Puoi morire solo ucciso da qualcuno più forte di te.- un sorriso sardonico si disegnò sul suo volto insanguinato, - e, nel tuo caso, sai cosa significa, vero?
- Cane maledetto!
- Buona dannazione eterna, amico!

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sabato 22 settembre 2012

Controllo Mentale 1.0




Controllo mentale 1.0

In radio c’è anche un gallo
In radio c’è anche un gallo
E il gallo corococò


- Cos’è ‘sta merda? Dai cazzo, levala prima che mi girino le palle.
Non rispose, si limitò a guardarmi con il suo solito musetto sbarazzino da “marachella in progress”.

In radio c’è un tacchino
In radio c’è un tacchino
Il tacchino glugluglu


- Clo, tira via sta roba! Ti rendi conto che hai tolto “love me two times” per mettere ‘sto schifo?
Cominciò un balletto stupido, scimmiottando gli animali sullo schermo. La guardavo divertito mentre, seduto sul divano, avevo ormai smesso di tentare di leggere un po’. La amavo quando faceva la scema, mi ricordava quando eravamo ragazzini e ogni motivo era buono per fare gli sciocchi e finire avvinghiati, storditi da quelle sensazioni che ancora non sapevamo decifrare.

In radio c’è un piccione
In radio c’è un piccione
Il piccione trruu


- Uffa, fare la ruffiana non mi farà cambiare idea. Sono irremovibile.
Ma lei non mi ascoltava, gattonava languida verso di me come non faceva da tanto, troppo tempo. Scuoteva la testa come la ragazza nel video degli white snakes, come si può resistere a una tale valanga di sensualità rock?

In radio c’è anche un gatto
Inradio c’è anche un gatto
E il gatto miaoo

- Clo, dai…
Ormai era arrivata da me. Inarcò la schiena e avanzò lenta, strusciando i suoi seni sulle mie cosce mentre, con la bocca socchiusa, sfiorava il tessuto dei jeans, proprio sopra la patta. Avanti e indietro, ancora avanti e poi indietro. Come un’onda seguita dalla risacca, si strusciava su un bagnasciuga che si faceva sempre più duro. Miagolò, e fu il colpo di grazia.

In radio c’è anche un cane
In radio c’è anche un cane
E il cane bau bau


- Clo, se fai così io…
Mi guardò con quella dolcezza erotica che mi faceva impazzire e, finalmente, le sue mani si appoggiarono sul mio corpo: sentii le sue unghie correre veloci giù per la mia schiena e aggrapparsi con forza alla cintura, mentre la mia volontà crollava, pezzo dopo pezzo, distrutta dai brividi che mi scuotevano il corpo e dal fragore con cui il profumo della sua pelle mi esplodeva nelle narici.

In radio c’è un agnello
In radio c’è un agnello
E l’agnello beee


- Clo…
Scese con le labbra nuovamente sulla patta e afferrò con i denti la linguetta della lampo. Cominciò a tirare piano, la lieve pressione del tessuto mi faceva pulsare il membro come volesse esplodere, sentivo ogni singolo scatto della cerniera come un colpo d’accetta sulla già sottile fune del mio autocontrollo. Ero al limite.

In radio c’è una mucca
In radio c’è una mucca
E la mucca mooo


-…
Mi slacciò veloce la cintura e liberò la mia virilità scostando i boxer. Ero teso allo spasmo, avrei voluto reagire, sdraiarla sul tappeto e prenderla con forza. Ma avevo troppa paura di rompere l’incantesimo e il mio corpo sembrava rispondere più a lei che a me.
Si alzò in piedi lentamente, espirando dalla bocca ancora socchiusa. I nostri corpi scorrevano l’uno sull’altro, solo un sottile strato di seta separava la sua pelle dalla mia. I capezzoli spingevano arroganti sulla vestaglia mentre mi passavano a millimetri dal viso, sembravano volerla strappare, puntare le mie labbra. Io avrei voluto baciarli, succhiarli, morderli, sentirla gemere.

In radio c’è anche un toro
In radio c’è anche un toro
E il toro muuu


Non riuscii a far altro che smettere persino di respirare.
Lei si girò di schiena e sporse i fianchi verso il mio volto fino a lambirmi la bocca con il risvolto della vestaglia. Il tessuto leggero le cadeva morbido sulle natiche delineando quelle forme che incarnavano tutte le mie voglie. La vidi piegarsi in avanti e scendere con lo sguardo su di me, così inequivocabilmente pronto per lei. Si slacciò la vestaglia e si inarcò quel poco che bastò a farla scivolare lentamente a terra. Le sue grazie si schiusero d’innanzi ai miei occhi, sentii il profumo della sua eccitazione pervadere l’aria e annichilire le mie percezioni: tutto il mondo era racchiuso in quei pochi centimetri di aria tra i nostri desideri.
Non potevo resistere oltre, dovevo averla, subito.
Mi prese le mani e se le poggiò sui fianchi, la osservai scendere su di me, a ogni millimetro sentivo amplificarsi la mia voglia di lei, sempre di più. Quando, infine, i nostri sessi si sfiorarono, ebbi un sussulto, lei si alzò lievemente e poi riscese, fino ad appoggiarsi appena. Tutto il mio corpo era teso, ero così vicino, eppure ancora così lontano: non desideravo altro che lei si lasciasse andare, il peso avrebbe fatto il resto.
Tremavo.

Il trattore brum
Il trattore brum
Il trattore brum
E il pulcino splash. Oh oh.

La canzone finì e Clo si alzò di scatto. Si girò verso di me e, afferrandomi dietro la nuca, spinse il mio viso verso il suo ventre, come a volermi far sentire quanto anche lei fosse eccitata. Poi si staccò, brutalmente, e fece qualche passo indietro, verso la televisione. Lentamente spostò il cursore sul tasto “replay” del video di youtube e mi guardò maliziosa con il dito sul telecomando, pronta a far ripartire la canzone, se solo io gliel’avessi chiesto.
Quella maledetta, mi era completamente uscita di mente la scommessa. I miei propositi di fermezza e inflessibilità non furono nemmeno formulati.
- Sì, falla ripartire e, anzi, metti il “repeat”.

In radio c’è un pulcino
In radio c’è un pulcino
Il pulcino pio
Il pulcino pio
Il pulcino pio
Il pulcino pio


Lei mi si avvicinò ancheggiando e si inginocchiò tra le mie gambe. Mi prese dolcemente con la mano e mi guardò dal basso verso l’alto: sapeva che lo adoravo, era il mio “premio” per essere stato così remissivo.
- Te l’avevo detto che mi avresti implorato di metterla. Ma ora vediamo cosa si può fare con questo bel signorino, mi hai fatta aspettare abbastanza.

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giovedì 20 settembre 2012

Intrighi di Giada



Intrighi di Giada

I passi delle due guardie armate echeggiarono nel corridoio sempre più flebili man mano che si allontanavano. I coni di luce delle torce tascabili, ormai spariti dietro l’angolo del corridoio,  gli lasciarono negli occhi la sensazione che il buio fosse più impenetrabile di quanto gli fosse parso fino a poco prima.
Si calò piano dall’angolo del soffitto nella cui ombra aveva trovato riparo: il sottile strato di cuoio gommato non emise alcun suono quando, dopo un salto di cinque metri, tornò a toccare terra.
Riprese a muoversi rapido tra i corridoi, lungo il percorso che aveva imparato a memoria: secondo i suoi calcoli avrebbe dovuto incrociare ancora una volta la ronda numero quattro, ma non successe.

-Vieni, figlio mio, siedi con me.
Il vecchio capo villaggio, barricato nel suo kimono più pesante, indicò al ragazzo un basso tavolino al centro del cortile innevato. La coltre bianca attutiva persino i pensieri, che parevano sussurrati come parole di un amore proibito. Solo il rumore di una canna di bambù che, riempita dalla cascatella sotto la quale era situata, si svuotava battendo con regolarità su una pietra, ricordava a quel posto immobile l’esistenza del tempo.
-Hai.
Il giovane prese posto alla destra di suo padre dopo avergli tributato un inchino profondo e attese che la ragazza, fino a quel momento invisibile alle loro spalle, gli versasse del tè.
I due stettero a lungo in silenzio a contemplare la perfetta imperfezione della natura artificiale che li circondava, concedendosi solo di quando in quando un breve sorso dalle tazze in ceramica decorata, usate perlopiù per tenere calde le mani.
-Il consiglio si è riunito questa mattina. Abbiamo deciso che il tempo per riportare a casa il Pettine di Giada, simbolo del nostro clan, è ormai giunto.
Il vecchio fece un altro piccolo sorso e appoggiò la tazza: silenziosa come la neve su cui si muoveva, la ragazza la riempì nuovamente e tornò veloce alla distanza che le era concessa.
-Hai.
-È stato deciso che sarai tu a occuparti del recupero.
Una smorfia si disegnò sul volto del ragazzo: quella decisione lo riempiva di orgoglio e disgusto al tempo stesso.
-Hai qualche perplessità riguardo il tuo compito?
-No padre. Mi chiedevo solo chi avesse proposto me per un incarico tanto importante e-, fece una lunga pausa,-tanto lontano.
Un sospiro profondo precedette la risposta dell’anziano:
-Sai bene che le decisioni del consiglio non hanno nome, né volto. Mi manchi di rispetto con la tua arroganza.
-Perdonate, padre. Non era mia intenzione.
-Partirai al tramonto! Ora va’, raggiungi Matsumoto nella sala della guerra, ti aggiornerà sui dettagli.

-Il Taj-Mahal? - Han strabuzzò gli occhi,-stai scherzando?
Matsumoto rise mentre aprì sul tavolo una serie di rotoli con le mappe del palazzo.
-Non essere precipitoso, la sicurezza è meno intensa di quanto si possa pensare. Saranno altre le tue preoccupazioni in questa missione.
Han incassò il colpo, era giovane, ma era il miglior ninja del più importante clan del Paese: i Murasaki.
-Quali?- rispose freddo.
-Prima o poi dovrai cominciare a interessarti di politica, Han, un giorno sarai capofamiglia. I clan non portano a termine i loro affari con kunai  e shuriken, ma con lingua e cervello.
-Le lingue si tagliano, i cervelli si infilzano. Questa è tutta la politica che mi serve.
-Ringrazia che non ti abbia sentito tuo padre. Ora taci e ascolta!- il tono di Matsumoto non ammise repliche: Han si sedette accanto a lui osservandone le mani che si muovevano rapide sui disegni, mentre le sue parole lo riempivano di informazioni.
Dopo più di tre ore, il ragazzo aveva quattro pagine di taccuino fitte di appunti sull’edificio e i sistemi di sicurezza.
-Incredibile che un edificio come il Taj sia così poco sorvegliato.
-Perché il maggior valore ce l’ha l’edificio stesso e, sai, ho come l’impressione che sarebbe oltremodo difficoltoso rubarlo.
L’atmosfera tra i due si era molto distesa durante il briefing, parlare della parte operativa della missione li aveva messi subito d’accordo.
-Grazie dei consigli, Matsumoto-san, a presto.
-Han, aspetta, non sottovalutare i risvolti politici della missione. Se qualcosa dovesse andare storto, ci sarebbero famiglie pronte a scattare come serpi contro il nostro clan. Stai molto attento a che tutto vada per il verso giusto.
-Hai.- rispose sbuffando Han, prima di sparire.
-Una volta c’era più rispetto!- sorrise Matsumoto, tornando all’interno.

L’ombra avvolgeva l’uomo dietro il grosso tavolo in legno: solo il lieve cigolio della sedia su cui poggiava rassicurava sulla sua effettiva presenza. Di fronte a lui, Hanzo Mitsushi e Shito Nakamura, capifamiglia degli omonimi clan, sedevano impettiti aspettando una sua parola.
-I preparativi in India sono a buon punto?
Il tono grave dell’uomo scandiva ogni parola: solo un lieve tremolio nella voce tradiva la tensione che anche lui doveva provare.
-Sì, sarà tutto pronto per dopodomani notte, in linea con i piani, non c’è nulla di cui preoccuparsi.
Rispose Nakamura d’un fiato, il ginocchio destro gli tremava vistosamente, se lo afferrò con la mano per mascherare il nervosismo.
Nel buio, un sorriso invisibile si disegnò sul volto dell’uomo: gli piaceva che i suoi sottoposti o, come preferivano essere chiamati, “collaboratori” lo temessero.
-E in seno al consiglio? È stato tutto predisposto come ho ordinato?
-Al momento opportuno, tutti i capiclan sapranno da che parte schierarsi. Mi sono personalmente assicurato che Murasaki non sospetti nulla.
Mitsushi pareva più calmo del suo parigrado: era famoso per saper mascherare bene le proprie emozioni e si stava rivelando una pedina molto utile nello scacchiere dell’uomo nell’ombra.
-Perfetto. Avete agito bene. Prima dell’alba partiremo anche noi per l’India, voglio che voi, i miei più fidi e importanti collaboratori, siate al mio fianco nel momento di questa vittoria. Una nuova era sta per nascere, avrete il privilegio di esserne testimoni.

Incastrò la capsula argentata sul piano del piccolo cingolato elettrico, grosso non più del suo pollice. Si stupiva sempre di quanto fosse stata radicale, negli ultimi anni, la trasformazione dei loro mezzi e delle loro risorse: la tecnologia, un tempo ripudiata in nome delle tradizioni, era diventata uno dei loro maggiori punti di forza. Controllò col GPS che il piccolo trasporto fosse nel punto giusto, poi fissò l’orologio proiettato sullo schermo interno delle lenti oculari, aspettando il momento giusto per avviarlo.
In un lieve ronzio, il cingolato si mise in moto, guidato attraverso i corridoi bui del grande Taj dal chip programmato con il percorso da seguire per arrivare alla camera funebre. Han lo osservò sparire nell’oscurità, sorrise. Fece un respiro profondo e corse nella direzione opposta: era in anticipo di una dozzina di secondi sulla tabella di marcia, ma non c’era comunque tempo da perdere.

Tre SUV neri si fermarono a qualche centinaio di metri dal palazzo. Attraverso i parabrezza oscurati, la costruzione sembrava fluttuare nel vuoto, stagliando la sua magnificenza verso il cielo e affondando le proprie radici nel nulla. All’interno dei veicoli, i tre uomini aprirono la comunicazione attraverso gli auricolari.
-Nakamura, Mitsushi, mi sentite?
-Sì, io sento bene.
-Anche io.
Le loro voci rimbalzavano attraverso i microfoni, permettendo loro di conversare come fossero seduti l’uno accanto all’altro.
Dentro il veicolo centrale, l’uomo nell’ombra aprì una piccola borsa e ne estrasse un tablet. Osservò lo schermo nero, su cui era ricalcata in verde la pianta di un’area del Taj-Mahal, su cui lampeggiava una dozzina di statici punti gialli. Le mani dell’uomo si mossero rapide sullo schermo spostando e ingrandendo la mappa, fino a quando vide, intermittente e in movimento, un punto rosso diretto verso la camera funebre.
-Manca poco, godetevi lo spettacolo.
I suoi occhi seguirono trepidanti il movimento del localizzatore rosso, lo guardarono avvicinarsi sempre più all’obiettivo. Un’ondata di emozioni lo percorse da capo a piedi.
Dopo un minuto lungo un’eternità, il puntino raggiunse finalmente il centro della stanza: si trovava proprio d’innanzi al sarcofago della regina. L’uomo chiuse gli occhi immaginando la scena: Han era sicuramente lì, magari stava già sollevando il coperchio, tronfio e spavaldo come sempre.
Sorrise, era impossibile trattenere la gioia: allungò la mano verso lo schermo, trattenne il fiato e toccò il riquadro azzurro nell’angolo in basso a destra.
Il segnale satellitare impiegò pochi istanti a raggiungere i detonatori delle dozzine di dispositivi a impulsi sparsi per tutto l’edificio, istanti in cui il mondo intero parve fermarsi, tributando il giusto rispetto a un momento tanto importante.
Un lampo blu si accese nel palazzo, proiettando per un istante nel cielo le forme degli arabeschi forati delle cupole. L’onda d’urto e lo spostamento d’aria arrivarono immediatamente a investire anche i tre veicoli che tremarono sugli ammortizzatori. Infine li raggiunse anche il rumore, un ronzio robotico assordante, ultimo preambolo al più magnifico spettacolo di distruzione mai visto: la frequenza degli impulsi, entrando in risonanza con il marmo delle colonne, le aveva disgregate, rendendole null’altro che dei cumuli di sabbia candida. Senza più alcuna struttura portante, in pochi attimi l’intero edificio collassò su se stesso, implodendo in una cascata di pietra e polvere.
-Addio, Han, non mi eri mai piaciuto.
Sussurrò compiaciuto l’uomo nell’ombra prima di scoppiare in una liberatoria e fragorosa risata. Le lacrime di gioia gli sgorgarono copiose dagli occhi mentre, a ogni singhiozzo, sentiva la felicità esplodergli nel ventre come poderosi colpi di timpano.

Le risate gli morirono in gola quando, appena fuori dal finestrino, sentì risuonare una voce fin troppo familiare.
-La morte ti diverte, traditore?
Il vetro esplose in mille frammenti sotto il pugno di Han che, rapido e preciso, diresse la lama del kunai a recidere la cintura di sicurezza. Prima che questi potesse reagire, con l’altra mano lo afferrò per l’orlo del kimono e, con forza, lo tirò fuori dal finestrino scaraventandolo a terra. In un attimo fu sopra di lui, la lama della spada a carezzargli la gola, pronta a dissetarsi con quel sangue infame.
Lenti e ritmati, dei passi risuonarono nell’erba: l’uomo dell’ombra alzò lo sguardo e vide avvicinarglisi Hayao Murasaki, le mani nascoste all’interno dell’abito e un’espressione grave dipinta sul volto. Accanto a lui Hanzo Mitsushi, appena sceso dal SUV lì accanto.
Il vecchio Murasaki si fece più vicino all’uomo a terra e, con un gesto rapido, gli sollevò il capo per guardarlo in faccia:
-Matsumoto, il mio più fidato consigliere. Non ci volevo credere, persino ora che ti vedo in faccia e ne ho le prove non mi capacito del tuo tradimento. Uccidere mio figlio, macchiare me dell’onta del fallimento e far ricadere sulla famiglia la responsabilità dell’attentato. Sei un uomo senza onore e come tale morirai. Han.
Il giovane ninja infilò a forza la spada tra le labbra del condannato, l’acciaio stridette strisciando sui denti serrati ma, alla fine, con un gesto rapido e preciso, la lama recise la lingua e parte delle labbra. Si alzò in piedi e gli trafisse il cranio infliggendogli il colpo di grazia.
-Le lingue si tagliano, i cervelli si infilzano.- sussurrò rinfoderando l’arma.
-Figlio, assicurati che Shito Nakamura plachi sul nascere ogni suo desiderio di fuga, lo porteremo davanti al consiglio e lì risponderà dei suoi crimini, senza sconti. Si torna a casa.

La primavera era sbocciata nel cortile di villa Murasaki, il profumo dei gelsomini pervadeva l’aria e i petali dei peschi in fiore tingevano il tutto di un rosa immacolato. Il canto degli uccelli era scandito ancora una volta dalla canna di bambù che, dal centro di una delle cascatelle del ruscello, si svuotava ritmicamente battendo sulla pietra. Al basso tavolino nel centro dello spiazzo in pietra bianca, sedevano, l’uno accanto all’altro, Hayao Murasaki e Hanzo Mitsushi: sorseggiavano lenti il tè, accompagnati l’uno dal figlio Han e l’altro dalla figlia Sayuri, tutti avvolti nei lunghi kimoni tradizionali della festa dei fiori.
-Mitsushi-sama, vi ringrazio di aver accettato il mio invito, conosco l’entità degli impegni che gravano sulle vostre nobili spalle.
-L’occasione era importante, Murasaki-sama. Questo sarà ricordato come un giorno storico nel nostro grande Paese.
I due capiclan non avevano fretta di esaurire i convenevoli, che i patriarchi delle due più influenti famiglie di tutto lo stato si sedessero da amici allo stesso tavolo, era una cosa che non succedeva da più di duecento anni. Le tradizioni andavano rispettate.
-Voglio cogliere una volta ancora l’occasione per ringraziarvi di aver salvato l’onore e la sorte della mia casa, Mitsushi-sama. Se non fosse stato per la vostra integrità, la vipera che cresceva nel nostro grembo ci avrebbe avvelenati a morte. Mi sento in debito con voi.
-Le nostre famiglie sono rivali da più di mille anni, ma mai si sono affrontate senza onore: conosco il rispetto che portate per i miei antenati perché io nutro lo stesso per i vostri. Non ho salvato il vostro onore, ho solamente preservato il mio, non mi dovete nulla.
Si rivolsero a vicenda un inchino prima di fare un altro sorso di tè, a conferma che avevano ognuno apprezzato le parole dell’altro: si poteva proseguire.
-Amico mio, - continuò Murasaki, - credo che i nostri ragazzi fremano per conoscere il motivo della loro convocazione. Vuoi farmi l’onore di spiegare loro la situazione?
-Hai. Han, è cosa nota che tu sia un guerriero forte e rispettato. Mia figlia Sayuri ha ormai raggiunto l’età giusta per prendere marito. Per cementare la nuova alleanza e l’amicizia che dovrà, d’ora in avanti, regnare tra le nostre grandi famiglie, io e Murasaki-sama abbiamo deciso che, al termine della primavera, voi due vi sposerete, così che i nostri clan siano legati dal più forte dei vincoli: il sangue. Che questo matrimonio sancisca l’inizio di una nuova era per noi e per tutto il nostro glorioso Paese.
-Hai parlato bene, Mitsushi-sama. A questo proposito, credo che mio figlio abbia un dono con cui omaggiare la sua futura sposa. Han.
Il giovane si alzò in piedi e si inginocchiò di fronte al padre della ragazza, si profuse in un profondo inchino, arrivando a lambire il terreno con la fronte. Senza sollevarsi, allungò le mani sopra il capo porgendogli un cofanetto di legno scuro. L’uomo lo prese e, aspettato che il ragazzo si fosse rialzato, lo ringraziò con un inchino appena accennato. Appoggiò poi il cofanetto sul tavolo e lo aprì. Sgranò gli occhi quando i tenui raggi del sole si rifletterono sugli intarsi in madreperla del Pettine di Giada. Alzò lo sguardo pieno d’orgoglio verso l’altro capofamiglia:
-Ci avete dimostrato il massimo rispetto possibile, d’ora in poi non vi considereremo nostri amici, sarete per noi dei fratelli,- spostò gli occhi su Han,-sarete per me dei figli.
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