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giovedì 9 agosto 2012

El Conejito.


Racconto breve,  secondo classificato all'edizione X-2 del concorso letterario "Skannatoio 5 e mezzo" del portale "La Tela Nera".
Illustrazioni di: Alessandro Renna.

El Conejito
sangre, muerte y venganza



Nei sobborghi di Caracas, i combattimenti clandestini sono una cosa seria. Sui ring improvvisati in vecchi capannoni abbandonati, si decidono dispute di ogni tipo: onore, denaro, potere, territorio.
I grandi combattenti, con la promessa di facili vincite, attirano sempre tanti scommettitori e, a prescindere dall’esito delle sfide, più la gente scommette, più i boss guadagnano.
Le puntate sono sempre molto alte e i vari gruppi criminali fanno a gara per accaparrarsi i servigi dei lottatori migliori.

Il riff iniziale di Back in Black degli AC/DC risuonava dagli oltre 10000 Watt di casse disposte ai quattro angoli del vecchio magazzino portuale. Attorno a uno dei ring secondari, la folla urlava entusiasta: el Conejito, la rivelazione di giornata, aveva brutalmente sfigurato il settimo lottatore che aveva provato a mettersi tra lui e il main event. Non poteva permettere a nessun altro di arrivare a sfidare il Turco, era il suo bersaglio, la sua preda.
Nemmeno il tempo di tirare il fiato che subito un altro pretendente fu di fronte a lui. Era grosso, ma poco importava. Avrebbe fatto la fine di tutti gli altri.
El Conejito schivò senza problemi una combinazione cross-jab-gancio, come se l’avesse vista arrivare con ore di anticipo, il suo avversario quindi fintò un calcio circolare al viso per poi ruotare in aria e affondare con un laterale.
Inutile. In meno di un secondo si ritrovò a terra con la gamba del laterale bloccata in una chiave articolare. El Conejito cominciò a far ruotare la caviglia del suo nemico che batteva disperato il palmo a terra in segno di resa.
Doppiamente inutile. Quelli non erano i tornei ufficiali: non c’erano arbitri, non c’erano pause, non c’erano riprese. In uno schiocco, l’articolazione della caviglia cedette decretando in modo inappellabile la vittoria del combattente ancora in piedi che, non ancora soddisfatto, continuò a ruotare il piede del suo avversario fino a che gli ebbe fatto fare un giro di 360°. Solo a quel punto si fermò e, con un colpo di tallone, gli spezzò anche il ginocchio. La tibia lacerò la pelle imbrattando tutto il ring di sangue mentre le grida di dolore dello sconfitto venivano soffocate dall’esultanza del pubblico e dal primo assolo di chitarra di Angus.
João Mariachi del Castillo y Mendoza, detto el Conejito, posò nuovamente lo sguardo impassibile sul grande ring principale: il potere della ragnatela lo avrebbe portato fino a lì senza problemi e, a quel punto, avrebbe avuto la sua vendetta.


Erano passati quasi quattro anni da quando se n’erano dovuti andare con disonore dalla città, solo due da quando suo fratello maggiore, Miguel, era morto. El Conejo lo avevano chiamato, il coniglio, solo perché si era inizialmente rifiutato di combattere contro il Turco.
Don Alejandro, boss della zona del Chacao, tuttavia, non era un uomo a cui si potesse dire di no. Rapì Consuelo, la loro amata sorellina. La fece violentare, ripetutamente, da tutto il suo team di lottatori, fino a quando Miguel si decise a combattere. Perse, non solo l’incontro. Dodici fratture, sessantaquattro punti di sutura, un polmone perforato e un occhio maciullato. Ma il pubblico aveva avuto quello che voleva. Le scommesse raggiunsero picchi mai visti e Don Alejandro guadagnò più in quella sera che in tutto il resto del mese: la rovina di una famiglia di pezzenti fu un misero prezzo da pagare per un utile tanto cospicuo.
Fu allora che João, con il fratello e la sorella, si trasferì vicino a Puerto Ordaz, a ridosso delle zone selvagge del Paese, il più lontano possibile da quel mondo che aveva tolto loro tutto.
I due anni successivi furono un vero calvario. Del corpo possente di Miguel era rimasta solo una grottesca caricatura, il fuoco del guerriero che gli ardeva in petto era ridotto a nulla più che una fredda brace. Consuelo si era chiusa nel silenzio, non faceva altro che piangere, fino a quando crollava esausta, solo per venire tormentata dagli incubi.
Una mattina come tante, João tornò a casa dal turno notturno presso la locale distilleria di rhum ed entrò in camera per prendere guantoni e pantaloncini: nonostante la stanchezza aveva voglia di allenarsi. Nella penombra della stanza invece trovò, riverso a terra, il corpo senza vita del fratello. Il suo pensiero corse immediatamente alla sorella, la chiamò con tutto il fiato che aveva in gola e cominciò a cercarla ovunque: sperava davvero fosse occupata a piangere e non sapesse nulla dell’accaduto, era ancora troppo fragile.
La trovò solo mezz’ora più tardi, su un balcone all’ultimo piano della palazzina dove vivevano, impiccata col filo per stendere a una delle travi del tetto. Tentò disperatamente di sollevarla, di farla respirare, di scuoterla. Fu tutto inutile.
Passarono i mesi, João aveva continuato la sua vita aggrappandosi alle abitudini, mentre i giorni scorrevano tutti uguali con solo il dolore ed un malcelato desiderio di vendetta a tenergli compagnia.
Una mattina, mentre cercava qualche brandello di pace sul fondo dell’ennesimo bicchiere di rhum, sentì due peones che discutevano riguardo l’esistenza di un antico rituale, officiato dalle tribù che vivevano nel fitto della foresta: la vista de la araña. La leggenda narrava che, chiunque fosse stato disposto a pagare con la vita, sarebbe stato ripagato con la vista del ragno che lo avrebbe reso invincibile. Tra i fumi dell’alcool, João si convinse che fosse stato il destino ad averlo condotto lì.
Determinato alla vendetta, cominciò senza sosta a cercare i popoli della foresta e si presentò a loro per ottenere il potere della leggenda: era disposto a pagare qualsiasi prezzo per farla pagare al Turco.
Il rituale fu quanto di più doloroso la sua mente potesse concepire.
Más vale que tengas buenas razones, hombre, va a necesitar.
Meglio che tu abbia delle buone ragioni, ragazzo, ti serviranno.
Queste furono le uniche parole che il santone gli rivolse prima di cominciare a strappargli il cuoio capelluto dal cranio. Per giorni venne fatto mordere direttamente nel cervello da ragni velenosi, credette diverse volte di essere morto, ma i pensieri di suo fratello, di sua sorella e del Turco lo tennero ancorato a questa vita una volta di più.
Dopo una settimana di disperate sofferenze, quattro donne conclusero il rituale lasciando che, sulla testa rasata del ragazzo, una delle grandi tarantole sacre tessesse la propria tela, poi ne ricalcarono i tratti con pigmenti sulfurei e ferrosi. Infine, usando delle sottili ed affilate spatole d'osso, incisero la pelle lungo quelle linee, fino a quando pigmenti e ragnatela penetrarono a fondo nella carne.
João vagò per le terre dell’oblio per giorni e giorni mentre il suo corpo combatteva contro le infezioni, la febbre rischiò di ucciderlo, ma alla fine sopravvisse.
Quando si fu ripreso, il vecchio santone gli poggiò una mano proprio sopra il tatuaggio:
- Sentirai il tuo nemico, saprai ogni cosa prima che accada. Ora hai i mezzi per reclamare la tua vendetta.


Passò qualche minuto senza che un nuovo sfidante si facesse avanti, lo spettacolo offerto dalla gamba del precedente doveva averne scoraggiati molti. João si voltò e fece per andare ad appoggiarsi alle corde. Approfittando della distrazione, un giovane ragazzo mulatto saltò sul ring e, coperto dalle grida della folla e dalla musica assordante, cercò di coglierlo alla sprovvista. El Conejito sentì un lieve ronzio nelle orecchie e un formicolio al centro della schiena. Conosceva bene quelle sensazioni: la ragnatela lo stava avvertendo del pericolo e che il prossimo colpo sarebbe arrivato sulla sua spina dorsale. Si scansò con un certo anticipo sull’attacco del suo nuovo avversario mandandolo a vuoto. Vide il mulatto passargli accanto in salto e, senza esitare, lo afferrò per la vita. Il suo nuovo sfidante era fisicamente molto più piccolo di lui, lo sollevò sopra la testa senza fatica per poi farlo cadere con violenza sul proprio ginocchio.
Sentì la sensazione delle vertebre che si frantumavano attraversargli la gamba, dalla rotula alla pianta del piede. Istantaneamente il corpo olivastro del suo avversario perse qualsiasi volontà e stramazzò a terra inerme.
La folla, sbalordita, cominciò a urlare ancora più forte, di tanto in tanto si sentivano esclamazioni come: “tiene ojos detrás de la cabeza también”. Ha gli occhi anche dietro la testa.
Le scommesse crescevano esponenzialmente di minuto in minuto e João si era stancato di quelle nullità: voleva il Turco.
- C’è nessun altro? Si guardò attorno a braccia larghe, lesse la paura in tutti gli sguardi che incrociava: temevano di venire interpellati. -
Qualcun altro vuole offrire la sua vita per allungare quella del Turco? Nessuno?
D’un tratto, la folla ammutolì.
Dalle sue spalle una singola serie di lenti applausi. Don Alejandro camminava lento verso di lui battendo le mani compiaciuto. Pantaloni bianchi, camicia a mezze maniche di lino azzurro e panama in testa. La pelle abbronzata splendeva per il contrasto con le tinte chiare del suo abbigliamento. Attorno a lui la gente aveva creato il vuoto.
- Bravo, Conejito, bravo. Niente a che vedere con tuo fratello.
João fece fatica a trattenersi dal correre verso di lui e ucciderlo lì, davanti a tutti. Sarebbe arrivato presto anche il suo turno. Serrò la mandibola limitandosi a rispondere con un cenno del capo.
- Io dico che ti sei guadagnato il diritto a sfidare il Turco, nostro imbattuto campione da quasi cinque anni. Ma solo se il pubblico lo vuole.
Si voltò verso la folla e, allargando le braccia, urlò:
- Lo volete?
Tutti i presenti proruppero in un boato di assenso.
- Così sia. Chiamate il campione.

Il Turco fece il suo ingresso in campo tra le grida della folla e le note di This Cocaine Makes me Feel Like I’m On This Song: non esisteva canzone migliore per prepararsi ad uccidere.
Il puzzo di aria pesante misto a sudore, sangue e salsedine che impregnava l’ambiente lo faceva impazzire: risvegliava quella insaziabile voglia di violenza che aveva fatto di lui un vincente. Era la sua ragione di vita.
Fisicamente non era certo il combattente più massiccio che si fosse mai visto a Caracas: un metro e ottanta per novanta chili scarsi. Le caratteristiche che lo contraddistinguevano erano senza dubbio tecnica, velocità e la sua rinomata crudeltà. Salì sul ring e passò il palmo della mano sulle corde impolverate per asciugarsi quel lieve velo di sudore che avrebbe potuto inficiare la sua presa; poi, con calma, si girò verso il centro del quadrato e fissò i suoi occhi in quelli di ghiaccio di el Conejito che lo attendeva da qualche minuto. A dispetto del nome, era la prima volta che il Turco incrociava uno sguardo così terribilmente puro: nemmeno un sottile filo di paura contaminava quegli occhi. Bellissimi.
Ti verrà, ragazzino, viene a tutti.
Pensò sistemandosi il fez, tipico copricapo della sua terra natia nonché suo segno distintivo.
Il presentatore, un cencioso e sdentato tizio dall’aria messicana, si levò il cappello di paglia e arringò la folla presentando i due combattenti e tessendone le lodi. Il tifo e, di conseguenza, le scommesse, erano quasi tutte per il Turco. Nessuno dei presenti lo aveva mai visto perdere in più di cinque anni.
Don Alejandro, tra gli schiamazzi, percosse con un mazzuolo un enorme gong decretando così l’inizio dell’incontro. I due si studiarono girandosi attorno, nessuno sembrava voler fare la prima mossa: João perché, per sfruttare al meglio le sue capacità, doveva agire di risposta, il Turco perché non era solito far finire i suoi combattimenti molto presto, era il migliore anche perché intratteneva la folla come nessun altro. Le chitarre distorte fecero quasi esplodere le casse quando finì l’intro tranquillo di Radio/Video dei System of a Down. Il Turco aspettava proprio quel momento: il botto distrasse per un istante João che, nonostante il ronzio di avvertimento lanciatogli dalla ragnatela, non fece in tempo a schivare la salva di colpi che gli piovve addosso. Il Turco era troppo veloce e lui non poté fare altro che chiudersi a riccio e incassare limitando i danni. Di una trentina di colpi, ne andarono a segno solo un paio, ma furono più che sufficienti a spaccargli un sopracciglio e incrinargli una costola. L’avversario riprese a muoversi: descriveva ampi circoli attorno a lui facendo sventolare il cordino del fez, come a volergli far riprendere fiato. In realtà stava solo lasciando il tempo al dolore di spandersi a dovere e sensibilizzare le zone colpite, nonché al pubblico di godersi la scena.
El Conejito cercava invano di pulirsi le palpebre dal sangue: se gli fosse entrato nell’occhio avrebbe dovuto combattere guardando solo col sinistro. Optò per tenere la testa inclinata verso destra: per il momento pareva funzionare.
Al successivo botto delle casse, il Turco portò la seconda raffica di attacchi. Stavolta João non si fece cogliere di sorpresa e reagì per tempo o, almeno, così credette. Le sensazioni della ragnatela gli davano un buon anticipo, ma la velocità dell’avversario era troppo alta, sentiva quando e dove avrebbero colpito i pugni e i calci ma, nonostante questo, non riusciva a schivarli. Tantomeno a contrattaccare. Un circolare andò ad impattare sulla costola già malmessa che, in una fitta lunga e profonda, si spezzò. João cadde a terra per il dolore e sentì pizzicare la guancia poco prima che la tibia del suo avversario vi si abbattesse distruggendogli lo zigomo.
Il sangue cominciava a scorrere copioso sul terreno, ma il Turco ancora non voleva porre fine al combattimento. Saltellava attorno al ragazzo con fare baldanzoso rifilandogli calci sulle gambe e sulle braccia: voleva vederlo soffrire a lungo. João, dal canto suo, non aveva nemmeno più le forze per chiudersi e limitare i danni.
Chiuse gli occhi, pronto a cedere il passo alla morte, ma vide, vivide come se le avesse di fronte, le scene di quattro anni prima, quando il Turco aveva stuprato sua sorella e menomato a morte suo fratello: la sua famiglia voleva vendetta e lui non poteva morire senza avergliela data. Raccolse le ultime energie e aspettò il colpo successivo. Udì il ronzio e sentì formicolare ancora il fianco: si preparò ad afferrare il piede del suo avversario per poi ruotare col corpo e romperlo, ci avrebbe rimesso un altro paio di costole nel tentativo, ma ormai sentiva di non aver più nulla da perdere.
Il formicolio si fece più intenso. Il colpo stava arrivando. Alzò il braccio ignorando il dolore e fece il perfetto movimento per la presa alla caviglia ma, con suo sommo stupore, non ci fu nulla da afferrare, il colpo non arrivò.
Non è poss…
Il pensiero non fece nemmeno in tempo a finire di formularsi nella sua mente che, in pochi istanti, un formicolio e un colpo violentissimo si susseguirono sul suo viso. L’impatto lo fece girare su se stesso, facendolo finire con la faccia a terra. Non riusciva a sentire nemmeno le urla del pubblico, tutto il suo mondo erano i due metri attorno a lui: quello era, ormai, il raggio delle sue percezioni.
Aprì a fatica gli occhi e vide il suo avversario avvicinarglisi, nel suo sguardo brillava una luce assassina che reclamava la sua vita. Invece di finirlo, però, il Turco si accovacciò accanto a lui e gli sussurrò all’orecchio:
- Non potevi vincere contro di me, nessuno può. Credevi di essere l’unico con un dono speciale?
Per la prima volta da quando calcava quei ring di sabbia e sangue, si tolse il fez e, girando la testa, mostrò al giovane João il proprio cranio rasato su cui era impressa, in tonalità di rosso e giallo, una grossa ragnatela uguale alla sua.
- Salutami quel codardo di tuo fratello e quella puttana di tua sorella.
Il Turco si rialzò e, dopo una rapida occhiata al suo pubblico, spiccò un balzo, atterrando con il ginocchio e tutto il suo peso sul collo del ragazzo.
Adiós Conejito.

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